La seconda guerra al terrore

E’ una guerra come nessun’altra, la guerra al terrorismo. E come nessun’altra deve essere la maniera di combatterla. E’ utile rapire, torturare, imprigionare in luoghi segreti, coartare testimoni, nascondere prove? L’abbiamo fatto e lo faremo ancora, questo ha detto ieri sera il presidente degli Stati uniti George Bush in un intervento a reti unificate. Seconda fase, rilancio, ripartenza: come lo si chiami, Bush dice a tutti che l’incubo è appena cominciato.
Per la prima volta la Casa Bianca riconosce che le carceri segrete della Cia esistevano – se ne parla da un anno, esiste un’inchiesta europea su voli Cia e prigioni in stati del Vecchio continente, ma mai un’ammissione prima di questa. Ci servivano per avere quelle informazioni dalle quali dipende la nostra sicurezza, ha detto Bush. Le abbiamo ottenute applicando «metodi forti ma legali», quali non ve lo dico. Arrestando tizio siamo arrivati a caio, da lui a sempronio e avanti così, salvando il nostro paese a ogni passo. Funziona, quindi non ci fermeremo.
La guerra che iniziò sulle rovine fumanti delle Torri di New York – tra pochi giorni faranno cinque anni – ha trasformato, e in peggio, l’intero pianeta. Da allora l’Afghanistan diventato è un luogo da incubo in cui la Nato combatte senza vedere la fine, l’Iraq è un cratere fumante con cento morti ammazzati a settimana, Saddam è un condannato che pretende di scegliere tra forca e fucilazione, la Convenzione di Ginevra un fastidioso ricordo. Si può saltare addosso a un paese e bombardarlo a morte senza rischiare molto, come Israele ha fatto al Libano e come gli Usa potrebbero fare all’Iran – «sono come Al Qaeda», ha detto Bush degli ayatollah: poteva essere più chiaro?
E la guerra al terrore non riguarda solo i paesi cosiddetti caldi. Prendere un aereo è un affare rischioso, celebrare un processo una cosa che riguarda la sicurezza nazionale, e poi milioni di telefonate intercettate, impronte digitali raccolte, e-mail violate… L’Europa discute se è possibile portare bagagli in aereo e se si può volare con bottiglie e bottigliette. Allarmi veri, presunti e fasulli esplodono ogni giorno.
Ci viviamo dentro tutti, nella guerra al terrorismo, ma il modo di esercitarla è sottratto a qualsiasi tipo di controllo non diciamo democratico, ma nemmeno umanitario. L’idea centrale della war on terror è che il presidente degli Stati uniti ha il dovere di combatterla con tutti i suoi poteri costituzionali – e sono molti – e i terroristi veri o presunti hanno pochi o nessun diritto.
L’affondo di Bush è stato preparato con precise anticipazioni ai media, richiedendo espressamente la copertura in diretta dei grandi network. Il motivo è di palmare evidenza e non ha nulla a che fare con la sicurezza degli Usa o del resto del pianeta. E’ l’inizio della strategia di riconquista dell’elettorato americano, che in novembre voterà per le elezioni di medio termine. In ballo c’è il controllo del Congresso: se perdono, i repubblicani passeranno i prossimi due anni in tribunale a difendersi da inchieste di ogni tipo. I processi ai «terroristi» possono essere un buon palcoscenico elettorale ma le garanzie sono un ostacolo, i diritti un inciampo, il dovere della prova un fastidio.
Non è merce sacrificabile alle emergenze, dovrebbe anzi costituire il fondamento di un sistema democratico. Il problema è che a furia di esportarla, di democrazia non ne è rimasta molta. Le scorte non sono inesauribili.