La scoperta delle classi

Le classi sono fattori pesanti nella società statunitense odierna: a questa stupefacente conclusione è arrivato il New York Times, che sull’argomento ha aperto un’inchiesta in varie puntate. «Negli ultimi trent’anni», scrive il giornale, «il peso (dell’appartenenza di classe) ha continuato ad aumentare, invece che diminuire». La mobilità sociale – la possibilità di diventare ricchi essendo nati poveri o anche solo di migliorare la propria condizione – che era stata il sogno americano di milioni di individui si è progressivamente ridotta negli ultimi trent’anni e i figli condividono sempre di più la condizione sociale dei genitori. La cosa forse più interessante dell’inchiesta del Times è il suo candore. Esistono migliaia di pagine di studi sociologici, economici, storici, politici e culturali che hanno descritto la strutturazione in classi della società statunitense. Lo stesso giornale, bisogna dire, ha dato nel corso degli anni contributi di varia importanza alla lettura della società statunitense. Ma solo ora, sembra, giunge a tirare la conclusione epocale: le classi esistono e contano anche in una società e una cultura come quella statunitense che ha sempre fatto di tutto per negare la loro esistenza.

Anche oggi, nello stesso momento in cui mostra come le persone si scontrino quotidianamente con quelle che un sociologo chiamò «le ferite nascoste dell’appartenenza di classe», il giornale sostiene che la percezione generale della realtà è confusa: gli individui subiscono la sperequazione sociale, ma sono restii ad ammettere a se stessi che le sperequazioni esistono.

Ne sono vittime quando fanno i conti nelle proprie tasche, quando cercano casa e lavoro, quando mangiano, quando mandano i figli a scuola, quando si ammalano e così via, eppure fanno fatica, dice il giornale, ad ammettere che il sistema non gli sta dando quello che aveva sempre promesso. Alla loro confusione contribuisce il fatto che gli si offre una quantità di merci e servizi a prezzi sempre più bassi: beni e consumi una volta qualificanti in termini di classe, come i cellulari o i viaggi in aereo, le carte di credito o le stoviglie firmate Martha Stewart, sono diventati più universalmente accessibili. Lo sono, naturalmente, grazie a quello spostamento della produzione oltremare che ha sottratto posti di lavoro e redditi in patria. Gli articolisti Janny Scott e David Leonhardt non dicono quanti lavori deve fare una persona e quante persone, in ciascuna famiglia, devono lavorare per poter accedere a quei consumi (acquistati sempre più a credito), ma non c’è dubbio che il luccichio delle merci sia comunque abbagliante.

E’ stata però una «scoperta sorprendente», scrivono, registrare che la mobilità sociale è più alta in Francia, Gran Bretagna e soprattutto in Canada e in alcuni paesi scandinavi che negli Stati Uniti (anche se, aggiungono sollevati, non è così bassa come in Brasile). Del resto, tra il 1979 e il 2001 i redditi al netto delle tasse dell’uno per cento più ricco della popolazione sono aumentati 139 volte (superando i 700.000 dollari annui), mentre quelli del venti per cento mediano sono aumentati del 17 per cento (arrivando a 43.700 dollari) e quelli del venti per cento più povero sono aumentati del 9 per cento. Per molti lavoratori la crescita dei salari ha superato quella dell’inflazione solo in alcuni degli anni Novanta e la riduzione dei programmi pensionistici ha reso malsicura la terza età.

D’altro canto, è aumentato il numero degli afroamericani benestanti, il che significa che i fattori razziali hanno perso un po’ del loro valore costrittivo, e l’upper class è meno bianca-anglosassone-protestante di una volta. Tuttavia i segni più tipici del privilegio, l’accesso all’istruzione universitaria e la residenza nei suburbi più esclusivi, sono sempre più cose da ricchi. Infine Scott e Leonhardt citano il sociologo David Levine: «L’appartenere all’elite negli Stati Uniti offre una costellazione di privilegi che pochi al mondo hanno conosciuto; (ma) l’essere povero negli Stati Uniti mette in condizioni di disagio che non hanno uguali nell’Europa occidentale, in Canada e in Giappone».

Sono tutte cose che diciamo da molti anni. Così come abbiamo sostenuto, e cercato di mostrare, che il capolavoro politico delle classi dominanti statunitensi è stato quello di togliere redditi, servizi, protezioni sociali e rappresentanza politica e sindacale alle fasce deboli della società riuscendo a impedirne la sollevazione. Dalle mie parti, questo capolavoro si chiama «spennare il pollo senza farlo gridare». Ma se anche il New York Times, ora, si preoccupa vuol dire che forse è stato raggiunto il livello di guardia: di penne da togliere non ce n’è più e si rischia di strappare anche la pelle.