La scomparsa di Milton Friedman

Keynes chiuse la Teoria generale osservando che coloro che si credono liberi da qualsiasi influenza intellettuale sono spesso schiavi di qualche economista defunto. Ma era il 1936 e la vita media degli individui, per quanto agiati, era assai più bassa di oggi. Così, mentre Keynes morì nel 1946 a sessantadue anni e non poté vedere nulla dei «trenta gloriosi keynesiani», come ormai correntemente si designa il periodo 1945-1975, tutt’altra sorte è toccata a Milton Friedman, scomparso ieri alla veneranda età di 94 anni.
Nato accademicamente in piena influenza del keynesianesimo (conseguì la laurea nei primi anni Quaranta e il Ph.D. nel 1946), Friedman è vissuto abbastanza a lungo da poter assistere al completo trionfo delle sue idee, visceralmente antikeynesiane specie per le implicazioni di «filosofia sociale» della Teoria generale. Come lui stesso scrisse in un intervento presentato nel 1970 a Londra, all’Institute of Economic Affairs, «ho avuto l’esperienza di essere all’inizio in una piccola minoranza e ho avuto l’opportunità di osservare il mutare della scena man mano che un’idea diventa più accettata. C’è un comportamento tipico. Quando qualcuno minaccia una posizione ortodossa, la prima reazione è quella di ignorare l’intruso. Meno si parla di lui e meglio è. Ma se egli inizia a essere ascoltato e diventa fastidioso, la seconda reazione consiste nel coprirlo di ridicolo, di prenderlo in giro come un estremista, un pazzo».
E come un pazzo estremista, fino a metà degli anni Sessanta, veniva considerato Friedman, nonostante avesse già pubblicato alcuni dei suoi più importanti contributi alla teoria economica, come La metodologia dell’economia positiva (1953), Una teoria della funzione di consumo (1957) e la celebre Riformulazione della teoria quantitativa (1956). Né era possibile altrimenti: in un’epoca in cui anche il repubblicano Richard Nixon affermava che «ormai siamo tutti keynesiani», che spazio poteva esserci per chi, come lui, riprendeva di fatto l’assioma di Bentham, secondo cui l’intervento pubblico nell’economia doveva reputarsi «generalmente inutile» e «generalmente dannoso»?
Gli storici diranno quanto gli shock petroliferi del 1973 e del 1975 e la conseguente esplosione dell’inflazione abbiano concorso, in ambienti economici e sociali già surriscaldati dalle proteste giovanili e operaie, all’affermazione della teoria monetarista. Certo è che, quando nel 1976 l’Accademia di Svezia gli conferisce il premio Nobel per l’economia, Milton Friedman si staglia già all’orizzonte come il salvatore del capitalismo. E quanto le sue dottrine abbiano concorso al buon esito della restaurazione possiamo apprezzarlo ancor più oggi, dopo oltre un ventennio di applicazione di ricette più o meno ispirate al monetarismo («ormai siamo tutti monetaristi», aveva detto del resto già nel 1977 Franco Modigliani) che hanno privatizzato le economie, eletto la stabilità monetaria e il rigore di bilancio a feticci indiscutibili e – ovvia conseguenza – aumentato la disoccupazione e precarizzato il lavoro.
Che i nostri politici d’ambo le parti distillino le loro frenesie riformiste dagli alambicchi di Milton Friedman non deve dunque sorprendere: miscelando una raffinata teoria economica con l’anarchismo di fondo della sua filosofia sociale (di qui l’incontro con le frange più radicalmente «antistataliste» della contestazione sessantottina), il vecchio Milton ha fatto davvero bene il suo lavoro.