Capaci e via d’Amelio. 23 maggio e 19 luglio 1992. Cosa Nostra uccide, in due attentati, i magistrati del pool antimafia Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, alla cui collaborazione sono dovuti i maggiori successi nella lotta contro l’anti-Stato mafioso. Ad essere colpiti non sono soltanto i due giudici e le loro scorte, è l’intero Paese. La rabbiosa reazione della mafia, ferita dai maxiprocessi, disvela tutta la debolezza e vulnerabilità dello Stato. E le stragi sono seguite da un’ondata di sgomento, nella quale rischia di farsi strada la rassegnazione. Alcuni, tuttavia, intuiscono la necessità di una risposta immediata. Tra questi, Gian Carlo Caselli, oggi Procuratore generale presso la Corte d’Appello di Torino. In quella lontana estate del 1992 Caselli era da poco più di un anno approdato alla Presidenza della Corte d’Assise del capoluogo piemontese. Da un giorno all’altro decide di recarsi in Sicilia per raccogliere il testimone di Falcone e Borsellino. Lo terrà ben stretto per quasi sette anni, alla guida della Procura di Palermo. Da qui muove il libro autobiografico (scritto in collaborazione con Mario Portanova) che Caselli ha da poco mandato in libreria. Le pagine di Un magistrato fuori legge (Melampo Editore, 2005, 104 pagine, 10 euro) scorrono in un intreccio di cronaca, storia e attente riflessioni sulla complessa natura del fenomeno mafioso. In un racconto che è, insieme, un saggio storico e politico.
La scelta di andare a Palermo non tarda a dare i suoi frutti. Con la nomina di Caselli a Procuratore capo del Tribunale di Palermo ha inizio un nuovo periodo di intensa lotta contro Cosa Nostra: dal 1993 al ’99 la Procura palermitana sequestra beni mafiosi per 10mila miliardi di lire e condanna all’ergastolo 650 mafiosi. Soprattutto – ché questo sarà a conti fatti l’episodio caratterizzante – dà avvio al processo a carico di Giulio Andreotti, imputato di associazione mafiosa. L’accusa è infamante per l’imputato e dirompente per tutto un sistema di relazioni e di potere che ha retto nel corso di tutta la “prima Repubblica”. La vicenda giudiziaria sarà lunga (durerà circa undici anni) e verrà seguita dai media in un crescendo di polemiche e di accuse di politicizzazione della giustizia. Finalmente, approderà a un esito niente affatto scontato, ancora, per dir così, “misterioso”. Le accuse rivolte al potente uomo politico democristiano saranno provate. La Cassazione ne sancirà la fondatezza, per il periodo antecedente alla primavera del 1980, salvo dover contemplare l’avvenuto trascorrere dei termini della prescrizione. Ma Andreotti uscirà, alla fine della sua vicenda giudiziaria, immacolato, con l’aureola del martire innocente.
È una storia paradossale e, insieme, emblematica. Oggi riassunta – per chi volesse saperne di più – in un agile volume di documenti curato da Livio Pepino (Andreotti. La mafia. I processi, Ega Editore, Torino 2005) che mette a disposizione le principali carte del processo, a partire dagli elementi salienti dell’ipotesi accusatoria, confermati già dalla sentenza di primo grado con cui Andreotti venne assolto per insufficienza di prove: dalle frequentazioni con i cugini Salvo al «rapporto fiduciario» con l’onorevole Salvo Lima, notoriamente legato a Buscetta; dall’ascesa politica, in quota alla corrente andreottiana, dell’ex-sindaco di Palermo Vito Ciancimino al «continuativo interessamento» di Andreotti nei confronti di Michele Sindona).
Tre domande, solo in apparenza ingenue, prendono forma intorno a questa vicenda politico-giudiziaria. Perché sin dal 16 ottobre 2004, cioè dal giorno successivo alla sentenza della Cassazione, questa verità giudiziaria viene occultata? Perché l’esplicito riconoscimento di «una autentica, stabile ed amichevole disponibilità dell’imputato verso i mafiosi, fino alla primavera del 1980» (non tradotta in condanna soltanto grazie alla sopraggiunta prescrizione) viene trasformato, dalla grande maggioranza dei mezzi di informazione, in assoluzione? Perché infine, a partire da quei giorni, settori consistenti dell’informazione e del mondo politico (a cominciare dal governo allora in carica) rilanciano l’idea del «teorema politico-giudiziario», della persecuzione di Andreotti da parte dei magistrati «comunisti» di Palermo, delle «toghe rosse» di cui per primo aveva parlato proprio Totò Riina nel lontano maggio del 1994?
La risposta di Caselli è netta. Quella verità giudiziaria doveva essere celata e stravolta (tradotta nel suo contrario) non solo a beneficio di un imputato eccellente, ma anche per impedire che l’opinione pubblica conoscesse alcune tra le pagine più tragiche e importanti della storia recente del nostro Paese. Pagine alla luce delle quali già nel 1972 la Commissione parlamentare d’inchiesta sulla mafia aveva riconosciuto nel fenomeno mafioso una «parte della struttura del potere pubblico». È questo – il nodo dei rapporti tra la mafia e la politica – il nervo scoperto a cui Caselli dedica gli anni di Palermo. Ed è questa la chiave di tutta la vicenda fino al suo epilogo, narrato nelle prime pagine del libro.
Nel luglio del 2005 Caselli viene escluso dal concorso per la direzione della Procura nazionale anti-mafia da una norma ad personam inserita nella controriforma Castelli dell’ordinamento giudiziario e votata dal Parlamento quale risarcimento a Giulio Andreotti per la “persecuzione” subita. L’impedimento a Caselli di concorrere alla guida della Procura antimafia posto in atto attraverso una sconcertante sequenza di forzature, irregolarità procedurali, violazioni dei principi costituzionali perpetrate dal legislatore è un esempio paradigmatico della concezione berlusconiana del rapporto tra magistratura e politica: una cifra della distorsione delle regole dell’ordinamento democratico tentata (e in alcuni casi, come in questo, praticata) dal governo di centro-destra. Negli ultimi anni la classe dirigente di questo Paese ha ingaggiato uno sciagurato conflitto con lo Stato di diritto, le istituzioni democratiche, il principio dell’autonomia e dell’indipendenza dei poteri costituzionali. C’è da augurarsi che l’attuale legislatura marchi, almeno su questo versante, una radicale inversione di tendenza.