Non sappiamo ancora se il trofeo di guerra esibito da George W. Bush a poche ore dalle elezioni di midterm porterà voti ai repubblicani, ma è certo che la Casa Bianca punta tutto sull’«october surprise». Una sorpresa che dovrebbe coronare la politica di un presidente nato dalla paura, alimentata in questi anni, rilanciata a ogni calo di consenso e che finora ha vinto. Saddam Hussein è stato condannato a morte. Ed è come se idealmente si tornasse alla primavera del 2003 quando le truppe americane entrarono a Baghdad e proclamarono la vittoria sul paese prescelto per vendicare l’11 settembre.
La vittoria, sfuggita sul campo, ora è nel corpo appeso alla forca del dittatore e poco importa se il bersaglio si è rivelato sbagliato, se le armi di distruzioni di massa sono risultate inesistenti, se il terrorismo è dilagato, se il fontamentalismo islamico ha preso forza. Se ne è persa memoria. Bush esulta e spera che il paese dimentichi le 2800 bare a stelle e strisce e i 650mila corpi di civili iracheni, che dimentichi una guerra ormai persa, il Vietnam del XXI secolo, lo scontro civile e lo strazio delle 100 vittime quotidiane. Il presidente spera che i crimini contro l’umanità del raìs oscurino i suoi, e secondo gli ultimi sondaggi ci è quasi riuscito, il suo partito è risalito al 43% ed è appena a quatto punti dai democratici. Ma se una sentenza di morte porterà Bush alla vittoria anche l’America andrà in decomposizione.
La condanna a morte di Saddam Hussein non è inaccettabile perché punisce un innocente – il dittatore iracheno non lo è – ma perché è l’ultimo atto della degenerazione di quella democrazia che l’occidente intendeva esportare. È inaccettabile sempre e comunque. Contro la sentenza si sono alzate le voci europee, a cominciare da quella del ministro italiano Massimo D’Alema, che oltre alla ragione di principio ha anche indicato il pericolo dell’esplosione di odio tra sunniti e sciiti. Eppure è proprio questa soluzione di sangue che chiude il cerchio del disumano, di una cultura della violenza. E ne dice anche il fallimento. Non a caso, l’unico «tiepido» è stato Tony Blair che prima ha dichiarato «è giusto che Saddam Hussein e i suoi complici paghino per i loro crimini» e solo dopo, incalzato dalla stampa, ha ammesso che la Gran Bretagna è contraria in ogni caso alla pena capitale. Un Blair in stato confusionale, che ha sostenuto questo conflitto disastroso, e che si è fatto complice dei torturatori Cheney e Rusmsfeld, di Abu Ghraib e di Guantanamo. Il tribunale iracheno ha agito illegalmente così come la «sua» guerra, ha risposto ai massacratori con il massacro dei diritti. E se l’Europa non griderà a sufficienza contro la barbarie avrà finito con l’introiettare lo stesso virus.
Ed è questa la posta in gioco nei risultati delle urne americane. Se oggi la maggioranza dei cittadini statunitensi darà la sua preferenza a Bush avrà sancito la fine del paese, già compromesso nel profondo dai tanti «patriot act» che ne hanno corroso l’essenza democratica. Il «trofeo» Saddam allora sarà un boomerang, una bomba simbolica che esploderà prima di quella reale tenuta in serbo dal comandante in capo.