LA “RIVOLUZIONE DEI TULIPANI” E IL CAOS NELLO SPAZIO
POST-SOVIETICO
http://pravda.info
ripreso in http://www.kprf.ru , sito internet del PC della Federazione Russa
Gli insuccessi ripetuti in Iraq hanno costretto Washington a correggere la strategia del proprio comportamento nell’arena internazionale. Non rinunciando completamente all’uso della forza, gli americani pongono sempre maggiore attenzione all’utilizzo di strumenti non militari per raggiungere i loro obiettivi di politica estera. Così si fa leva sul meccanismo della “gestione del caos”, quando, pur non ostentandolo, si affida un ruolo essenziale alla collaborazione con gli islamisti radicali. E non solo nel Medio Oriente, ma anche nello spazio post-sovietico. Perciò, più complicata diventa per gli USA la situazione in Iraq, più fortemente si manifesta il loro “ardore rivoluzionario” nel Caucaso Settentrionale e in Asia Centrale. Allo stesso tempo il Caucaso Meridionale è quasi uscito dal centro della loro attenzione. Così, gli americani hanno acconsentito al trapasso del potere da Alyev-padre al figlio a Baku (Azerbaigian), mentre la “rivoluzione di velluto” è stata rimandata a tempi migliori a Jerevan (Armenia). Per quanto riguarda Tbilisi (Georgia) gli americani si sono convinti che Saakashvili non è in grado di risolvere i problemi dell’Abkhazia e dell’Ossezia Meridionale. Una spiacevole impressione ha esercitato su di loro l’assassinio di Zhvania, a cui avevano cominciato a guardare come ad un’alternativa allo stesso Saakashvili. In altre parole, si è manifestata una crisi sul piano progettuale. Per questa ragione, l’attività degli americani in Georgia si è fino ad ora limitata alla pressione sulla Federazione Russa, per ottenere al più presto la liquidazione delle nostre basi militari. Nel Caucaso Settentrionale, al contrario, l’attivismo di Washington è rilevante. Non si esprime in modo diretto, perché ciò entrerebbe in contraddizione con gli accordi raggiunti al vertice di Bratislava, ma attraverso l’Arabia Saudita che ha legami ideologici strettissimi con lo sceicco Abdulkhalim che dovrebbe succedere a Maskhadov e che è un feroce sostenitore della continuazione della “guerra santa”. Non è escluso che nei prossimi mesi questo attivismo si traduca in massicce azioni di terrore individuale o di massa allo scopo di destabilizzare la nostra situazione interna.
Ma al momento attuale, al primo posto, al centro dell’attenzione di Washington nello spazio post-sovietico, si è venuta a trovare la Kirghizia, in cui è stato appena estromesso il regime di Akayev. Sembrerebbe che la “rivoluzione dei tulipani” kirghiza rappresenti solo l’inizio di un “grande gioco”, il cui scenario potrebbe essere presto tutta l’Asia Centrale. La causa principale di ciò deve essere ricercata nell’inasprimento delle contraddizioni cino-americane. Negli ultimi tempi Pechino ha indirizzato la sua politica verso nord. Lo testimonia la sua partecipazione all’espropriazione di “Iuganskneftegaz”, l’assicurazione del proprio consenso all’ingresso della Federazione Russa nel WTO, il rafforzamento del contingente di forza lavoro cinese migrante nel nostro Estremo Oriente. Allo stesso tempo la Cina ha di fatto dato carta bianca alla Repubblica Democratica Popolare di Corea nella sua scalata antiamericana nella sfera nucleare, ha rafforzato il suo sostegno politico all’Iran, ha approvato la legge che legalizza una possibile invasione militare di Taiwan. Tutto ciò è stato estremamente doloroso per Washington, che, assicuratasi l’appoggio del suo alleato, la Gran Bretagna, ha adottato misure di risposta in Asia Centrale. Lo scenario qui consiste nella conseguente destabilizzazione della Kirghizia, dove con la rimozione di Akayev il caos è solamente iniziato; in seguito tale scenario dovrebbe ripetersi nella valle di Fergana con l’inclusione delle regioni di Tashkent e di Koresm, poi nel Kazakhstan meridionale e nella regione di Leninabad (Khuzhan) in Tagikistan. Le forze islamiste, della narcomafia e le elite regionali scontente sono in pratica già schierate ovunque. Se tale piano fosse attuato, verrebbe creata una poderosa piazza d’armi per esercitare pressione sul Sing Kiang cinese, popolato dagli uighuri musulmani. Ma, sebbene il trionfo del “caos manovrato” possa arrecare alla Cina una mole di inconvenienti, comunque non è ancora il caso di fare conto sulla destabilizzazione del Sing Kiang. In ogni caso, alcuni obiettivi dell’Occidente, in primo luogo degli inglesi, sono stati pienamente raggiunti. Proprio a Londra si trova il quartier generale del partito radicale “Khisb-ut-Takhrir-al-Islami”, che partecipa in modo attivo alla rivoluzione kirghiza. Come è noto, gli inglesi hanno forti posizioni anche nel nord del vicino Afghanistan. Qui è piazzato il loro contingente militare. Inoltre, essi rispondono ufficialmente della lotta con il traffico di droga in tutto il territorio del paese. C’è da dire che la produzione dell’eroina in Afghanistan dal momento dell’abbattimento del regime dei talebani, secondo i dati dell’ONU, è cresciuta di quaranta volte. Il governo di Karzai non controlla la situazione nel paese, tranne che a Kabul, mentre tra le forze della NATO e i signori locali esiste un tacito accordo, in base al quale gli afgani non attaccano le “forze di pace”, e queste, a loro volta, chiudono un occhio sul traffico di stupefacenti. In pratica i servizi speciali britannici in Afghanistan assicurano la “protezione” al commercio delle droghe. Una situazione analoga si registra nel Pamir, che oggi è completamente aperto al narcotraffico: recentemente da lì sono state ritirate le ultime truppe di frontiera russe e l’unica forza influente sul posto è il “Fondo Aga Kan IV”, il cui quartier generale è pure dislocato a Londra. Se ad Osh e, più in generale, in tutta la valle di Fergana e attorno ad essa il reale controllo passasse al “Khisb-ut-Takhrir”, allora in direzione nord si riverserebbe un’ondata di profughi e la strada del traffico di droga dall’Afghanistan alla Federazione Russa sarebbe sgombra. E da noi, sempre secondo i dati forniti dall’ONU, ci sono già più di un milione di eroinomani, vale a dire nove volte di più che nel 1995. Inoltre, tra 3-4 anni gli inglesi potrebbero essere in grado di trasportare la produzione di oppio e di eroina direttamente nella valle di Fergana. Vale a dire, in altre parole, il “narco-Afghanistan” verrebbe trasferito mille chilometri più a nord.
A differenza degli alleati britannici, gli obiettivi degli americani in Asia Centrale appaiono più sfumati. Naturalmente, a parte l’obiettivo di trasformare Osh e Fergana in un poligono per la preparazione della “rivoluzione sociale permanente islamica” e in una piazza d’armi per la sua esportazione nel Kazakhstan e nelle regioni russe del Volga e degli Urali, dove dovrebbe unificarsi con la “guerra santa” caucasica. Un altro obiettivo evidente è quello di sbarrare il possibile transito del petrolio dal Kazakhstan occidentale verso la Cina. D’altro canto non si capisce, di fronte a tali sviluppi, quale potrà essere la funzione delle basi americane a Khanabad e a Manas. In verità, queste installazioni sono collocate lontano, ai margini della valle di Fergana. Se gli USA si dovessero accordare con i clan settentrionali della Kirghizia, con quelli di Kuljab in Tagikistan e con i clan di Samarkanda e Bukhara in Uzbekistan in merito alla frammentazione degli stati dell’Asia Centrale, allora teoricamente le basi potrebbero essere mantenute. Ma contare sul fatto che il caos possa essere contenuto entro limiti territoriali è da considerarsi perlomeno un’ingenuità. Così come il fatto che il caos non possa sfiorare la Turkmenia. Dal momento che, secondo alcuni segnali, gli americani avrebbero intenzione di intimidire il “Turkmenbashi” (il tiranno locale) con l’aiuto degli islamisti, allo scopo di ottenere il suo accordo alla dislocazione di truppe USA in questa repubblica ricca di petrolio e di gas. Se ciò dovesse accadere, gli americani arriverebbero al Caspio da est e completerebbero l’accerchiamento dell’Iran. Ma la realizzabilità di tale scenario è messa in dubbio dalla possibilità di contromosse dello stesso Iran e dall’impossibilità di controllare completamente il partito “Khisb-ut-Takhrir”.
In un modo o nell’altro, gli americani e gli inglesi hanno avviato un gioco pericoloso con l’islam radicale. Pericoloso non tanto per loro stessi (si trovano troppo lontano) e neppure per la Cina, quanto per noi. C’è da dire che, al vertice di Bratislava, Bush ha promesso, su richiesta del Cremlino, di non acutizzare la situazione in Russia né attraverso il Caucaso, né con altri mezzi. Inoltre, dopo Bratislava Bush avrebbe diramato una direttiva ai servizi speciali americani perché “tallonino” quei nostri concittadini che, trovandosi in Occidente, esercitino attività dirette contro il Cremlino. In particolare su coloro che cerchino contatti con Soros e Berezovskij. Ma, in realtà, gli americani promettono al Cremlino una cosa e ne fanno un’altra. Dal momento che è la stessa amministrazione Bush a non controllare i propri servizi speciali. Cosa che peraltro non sorprende affatto.
Traduzione dal russo di Mauro Gemma