La rivolta nel carcere di San Paolo, segnale della barbarie nella società brasiliana

In Italia si discute molto di amnistia. A molti, con buone ragioni, appare una misura immediata, anche se non risolutiva, per sminuire le sofferenze nelle carceri sovraffollate. La crescita della popolazione carceraria non è un fenomeno solo italiano. E’ l’indice di una crisi di civiltà globale, di una regressione legata alla crisi del capitale e alla globalizzazione neoliberista. Aumentano disoccupazione e precarietà nel lavoro, aumenta anche il numero di detenuti nelle prigioni di estrazione sociale bassa.
In Brasile c’è un rapporto quotidiano di conflittualità tra piccoli criminali. Ladri di galline e spacciatori di spinelli combattono ogni giorno una guerra civile a bassa intensità tra oppressi. Una contraddizione in seno al popolo, si sarebbe detto in altri tempi.

Questo è ciò che è accaduto di recente a San Paolo del Brasile, una guerra aperta e dichiarata del sottoproletariato che popola le carceri – appoggiato e sostenuto dall’esterno – contro lo Stato e i suoi apparati repressivi. Ma da qualunque lato si guardi questa rivolta – ancora una volta, segnale della barbarie nella società brasiliana – non può sfuggire che i morti, siano essi carcerati insorti o poliziotti, appartengono agli strati sociali subalterni, ai meno abbienti, al sottoproletariato. Dall’altra parte, ci sono i ceti medi terrorizzati che chiedono più sicurezza e repressione.

Le grandi metropoli delle periferie dell’impero sono una bomba sociale pronta a scoppiare. Ma le tensioni abitano anche le città all’interno dell’impero. Bogotà, Lima, Rio de Janeiro, San Paolo, ma anche Los Angeles, Parigi, sono la prova vivente della crisi del capitale e della civiltà, della barbarie avanzante. Paradossalmente, la barbarie è il modo in cui il capitale si riproduce, accrescendosi, in tutti gli interstizi della vita sociale.

La borghesia in crisi ha scatenato in tutti i paesi un’offensiva contro le istituzioni politiche, culturali e sociali del movimento operaio. Il capitale ha cambiato la propria costituzione materiale. Il dominio della finanza, le riforme neoliberali e neoliberiste degli Stati, le ristrutturazioni tecnico-scientifiche hanno indebolito le classi subalterne. Sono disorganizzate, espropriate dei diritti conquistati in anni di lotte, abbandonate a se stesse, prive di servizi pubblici. Risultato: si svuotano i legami sociali di solidarietà, ci si rivolge a strategie di azioni criminali per sopravvivere.

Prendono d’assalto la proprietà privata e la legalità, ma non intaccano il potere del capitale. Anzi, sono la manifestazione della crisi del capitale, della crisi di civiltà e della regressione alla barbarie. Il diritto borghese diventa un’astrazione, sono gli stessi capitalisti che trafficano in armi, droga, persone, rifiuti industriali. L’accumulazione del capitale si sposa con la criminalità organizzata. La corruzione entra in tutte le stanze dello Stato borghese, anche in quelle forze dell’ordine che dovrebbero combattere la criminalità.

A San Paolo del Brasile il governo della regione ha deciso, dopo il massacro nella prigione di Carandiru, di progettare la costruzione di altre prigioni sparse in tutto lo stato di San Paolo. Il decentramento carcerario porterebbe – questa è la spiegazione ufficiale – a maggiore sicurezza, oltre a nuovi posti di lavoro in altre città.

Ma la ribellione dei detenuti di San Paolo, pure organizzata dal narcotraffico, non può essere affrontata solo sul piano della repressione e della sicurezza. Non tutti gli insorti, non tutti coloro che hanno appoggiato dall’esterno la rivolta carceraria, sono spacciatori. Il punto è che esiste una situazione sociale difficile, se non si agisce con la politica e le idee, con una trasformazione reale, si rischia di precipitare sempre di più nella repressione e nella barbarie.

Quella di San Paolo è stata una rivolta capeggiata – è vero – da narcotrafficanti, ma è riuscita a trascinare con sé abitanti della metropoli, disadattati, emarginati, sottoproletari in una sommossa contro lo Stato. Questi ultimi – ben più degli intellettuali – sanno che lo Stato non è democratico.

La situazione carceraria non migliorerà. Almeno, fino a quando non sarà affrontata la questione della criminalità organizzata che sta anche all’interno dello Stato.

Questo è il compito della sinistra, nella sua lotta generale contro il capitale. Altrimenti non risolverà mai le contraddizioni in seno al popolo, non unificherà mai le classi subalterne.

*docente di scienze politiche all’università di San Paolo*