La rimozione delle tute blu

Hanno sollevato sorpresa le critiche espresse, in modo civile e misurato, dagli operai della Fiat a Mirafiori nei confronti dei segretari delle confederazioni sindacali. Perché segnalano un contrasto fra il sindacato e la sua base “storica”. Perché rivelano incomprensioni da parte degli stessi ceti che, nelle intenzioni del governo, dovrebbero beneficiare maggiormente della finanziaria. Ma soprattutto perché abbiamo assistito al “ritorno degli operai”. Se ne erano perse le tracce, da tempo, nel dibattito pubblico. E, poi, sui media, come nella ricerca e nella riflessione economica e sociale. Parevano scomparsi. Lo stupore sollevato dall´episodio di Mirafiori costringe a riflettere.
Prima ancora che sui contenuti della protesta, sui motivi del nostro stupore. Perché gli operai non fanno più notizia?
Si potrebbe rispondere, in primo luogo, che la loro immagine si è sbiadita perché essi sono effettivamente in declino, come categoria professionale. Soprattutto quelli della grande impresa. A Mirafiori, ad esempio, l´occupazione è calata dei due terzi dopo la “mitica” marcia dei quadri, che decretò la sconfitta del sindacato “operaio”, nell´autunno del 1980. Da circa 60mila a poco più di 14mila.
Tuttavia, gli “operai”, nel 2005, secondo l´Istat erano ancora otto milioni. Un terzo degli occupati complessivi, la metà dei lavoratori dipendenti. Anche limitandoci alla sola industria manifatturiera, si tratta di circa 3 milioni di persone. Molti, comunque.
Se non li vediamo, se sono stati “rimossi” dalla scena pubblica, i motivi sono altri.
1. In primo luogo, la loro crescente dispersione, in una struttura produttiva diffusa, fatta di piccole e piccolissime aziende. Gran parte dei nuovi occupati, peraltro, accede attraverso lavori intermittenti, a tempo. Le attività più usuranti, più faticose, sono svolte dagli stranieri. I legami di solidarietà, ma anche di “comunità”, dunque, si sono persi. O meglio, dispersi.
2. Ne consegue un evidente deficit di rappresentanza. Ormai nessuno più parla di sindacati “operai”. D´altra parte, i caratteri dell´occupazione operaia rendono sempre più difficile, al sindacato, il compito del reclutamento. Il tasso di sindacalizzazione dei lavoratori dipendenti, nell´industria e nell´impiego privato, infatti, è progressivamente sceso. Oggi si colloca intorno al 35%. Ciò vale anche per la Fiat e per Mirafiori, dove il grado di adesione sindacale non è mai stato elevatissimo. Oggi, nel sindacato è divenuta maggioritaria la componente dei pensionati. Anche così si spiega la reattività sul tema delle pensioni. Mentre la vertenza sul contratto dei metalmeccanici è durata anni, senza produrre pari coinvolgimento.
3. Gli operai hanno minore visibilità di un tempo anche perché le loro tradizionali forme rivendicative hanno perduto efficacia. Gli scioperi aziendali e/o generali non “danneggiano” più come un tempo le grandi aziende (nelle piccole, perlopiù, non si fanno). Che hanno largamente delocalizzato il loro tessuto produttivo in altri Paesi. L´azione di protesta, invece, si è progressivamente “terziarizzata” (come ha osservato Aris Accornero). Non solo perché si è spostata nel settore “terziario”, ma perché, insieme, tende a scaricare i propri effetti sui “terzi”. Sui cittadini. Sugli utenti. Gli scioperi più efficaci, infatti, riguardano i trasporti urbani, ferroviari, aerei. I taxi oppure le banche, le poste. Perché generano disagio collettivo.
Ed entrano nel circuito “mediatico”. Un elemento decisivo, ai fini dell´efficacia della protesta, perché influenza negativamente l´opinione pubblica. Alimenta la sfiducia e il dissenso. Esercita, per questo, pressione politica.
Per cui, i controllori di volo o i tassisti (romani), che sono pochi, di numero, ma agiscono in punti nevralgici della comunicazione (in senso lato), ottengono più ascolto degli operai metalmeccanici. Ai quali, per farsi vedere e sentire, non resta che uscire dalla fabbrica e adottare forme di lotta “non convenzionali”. Occupare stazioni ferroviarie, attuare blocchi autostradali.
4. Tuttavia, tutto questo non basta, ancora, a spiegare la scomparsa degli operai, dalla scena e dall´immagine pubblica. Importante, a questo fine, pare il declino della loro identità sociale. Negli anni Settanta, dirsi operai – meglio: classe operaia – era motivo di orgoglio. Il segno che gli ultimi non erano più tali. Uscivano dalla solitudine e dalla loro marginalità sociale. Ottenevano un riconoscimento, una immagine comune. Oggi non è più vero. Per vent´anni, fino agli anni Novanta, abbiamo assistito al trionfo del mito dell´imprenditore. Nel quale si identificavano tutti i lavoratori autonomi indipendenti. I non-dipendenti. Negli ultimi mesi, è riesplosa la questione dei ceti medi. A differenza di quando, oltre trent´anni fa, Paolo Sylos-Labini, fornì loro definizione e misura, oggi i ceti medi appaiono quanto mai in-definiti e vaghi. Una formula usata, spesso, con finalità polemiche e di propaganda. In cui confluiscono figure diverse. Lavoratori autonomi, piccoli proprietari, partite IVA, impiegati. Un po´ alla rinfusa. Associati, nel linguaggio comune, alla “protesta” e alla “delusione”.
Così, gli operai sono finiti ai margini. Anzi: fuori scena. La “classe operaia”: una parola vecchia. Sostituita dai “nuovi ceti popolari” (ne hanno scritto, di recente, Magatti e De Benedettis). Che riassumono flessibilità nel lavoro, incertezza e vulnerabilità sociale. Cococo, contrattisti a progetto, lavoratori part-time e intermittenti, reclutati per telefono. Un´area che cresce, forse, più nella percezione che nella realtà. Al contrario degli operai.
Eppure, questa sottovalutazione, secondo noi, più della loro invisibilità, riflette la cecità nostra e di chi dovrebbe “rappresentarli”. Gli operai, infatti, non sono solamente una “categoria” ampia del nostro sistema produttivo (tra i pochi che ancora “producono”…), ma:
a) forniscono ancora una identità condivisa. Visto che il 34% degli italiani, per definire la propria posizione parla, appunto, di “classe operaia” (Osservatorio Demos-Coop, maggio 2006). Mentre solo il 6% richiama i “ceti popolari”.
b) pesano in modo rilevante, sugli orientamenti elettorali. Il recupero del centrosinistra nel 2006, rispetto al 2001, è avvenuto, infatti, soprattutto grazie allo spostamento elettorale, a suo favore, dei lavoratori dipendenti e dei pensionati (come rileva Roberto Biorcio, nel recente volume di Itanes, Dov´è la vittoria?, Il Mulino).
c) e soprattutto, “rappresentano” una parte della società ampia. A cui il programma dell´Unione ha dedicato grande attenzione. L´80% dei lavoratori dipendenti in Italia, nel 2004, dichiarava un reddito complessivo (inclusivo di abitazione etc.) inferiore a 25.000 euro annui lordi. Dunque, sotto i 1.500 euro mensili (inclusi premi ecc., per tredici mensilità). Gli “operai” (ai gradini bassi del lavoro dipendente) rappresentano (come ha suggerito l´economista Bruno Anastasia) il “popolo di quelli che guadagnano 1.200 euro al mese”. Poco più, ma anche (spesso) poco meno. E, per sopravvivere, sono costretti a praticare lavori e lavoretti. Quando è loro possibile. (Non tutti hanno il privilegio del “nero”). Oppure, se non dispongono di altre entrate in famiglia, se non hanno casa di proprietà, procedono navigando a vista.
L´insoddisfazione degli operai di Mirafiori nei confronti del sindacato riflette la precarietà di questa parte della società, più ampia di quanto non si immagini. Esprime, inoltre, una domanda di rappresentanza, particolarmente esplicita, verso un governo considerato “amico”. Perché il problema non è solo di “recuperare”, dalla revisione della curva dell´Irpef, qualche decina di euro, che rischia di venire riassorbita dalla pressione di altre tasse, in ambito locale. Più importante, forse, è evitare che le loro voci risuonino come echi di un passato che non si rassegna a passare. Per non rimuovere, insieme agli operai, anche le questioni che essi sollevano.