La neolingua della rappresentazione politico mediatica è oramai giunta a contorsioni estreme. Da anni sappiamo che con la parola riforma si intende il suo opposto, la controriforma sociale. Ora scopriamo che l’abrogazione dello scalone Maroni in realtà significa mantenerlo in vita con modalità diverse. Del resto anche il superamento della legge 30 oggi significa che essa resterà. Sempre più spesso quel che si annuncia va nella direzione opposta di quel che effettivamente si fa nella realtà. Lo scontro politico, però, avviene proprio sulla rappresentazione della realtà e non su come essa è veramente. Per cui se il governo dichiara di voler abolire lo scalone, senza poi farlo davvero, la maggioranza di governo si divide come se quella fosse la scelta e la destra, la Confindustria, i poteri economici, a loro volta contrastano con forza una decisione che non viene presa. In questo conflitto la sinistra si rafforza nella convinzione di determinare chissà quale profondo cambiamento sociale. Che invece, naturalmente, non avviene.
La vicenda delle pensioni rappresenta materialmente e simbolicamente questa deriva. La campagna liberista sul costo insostenibile delle pensioni è priva di fondamenti reali. Da Luciano Gallino, a Roberto Pizzuti, a Giovanni Mazzetti, a tanti altri intellettuali e ricercatori, continuano a giungere dati che smentiscono totalmente gli allarmismi sul 2050. Anno nel quale si scioglieranno i ghiacci, ci sarà la catastrofe ecologica, ma, cosa ben più grave, ci sarà il rischio di uno spostamento dello 0,8 del Pil a favore delle pensioni.
Ma quali sono le ragioni reali che stanno alla base di questo teatro dell’assurdo, della rappresentazione di un inesistente collasso del sistema pensionistico pubblico? Per capire dobbiamo farci aiutare dal ministro del Tesoro e dal governatore della Banca d’Italia. Già all’epoca del suo insediamento, Tommaso Padoa Schioppa richiamò il 1992. Il 31 luglio di quell’anno fu siglato il più disastroso accordo sindacale del dopoguerra, nel quale si cancellava la scala mobile, si bloccava la contrattazione nazionale e aziendale, si tagliavano drasticamente le pensioni e tutta la spesa sociale. Lo stesso richiamo è venuto qualche mese fa da parte del governatore della Banca d’Italia, che al Forex di Torino ha detto che sulle pensioni occorre instaurare lo stesso tipo di concertazione che si realizzò per la scala mobile. L’esempio fa venire i brividi, visto che la scala mobile non c’è proprio più, ma ciò che interessa qui è il significato profondo di questi richiami. Essi partono dall’idea che tutto il sistema sociale pubblico ha un costo insostenibile se affidato allo stato e alla fiscalità e quindi deve progressivamente essere trasferito all’impresa e al mercato. Anche per le pensioni, bene sociale fondamentale della nostra comunità, la parte pubblica va inevitabilmente ridimensionata e il governatore Draghi, con il pieno consenso del ministro del Tesoro, ha scritto nelle sue ultime considerazioni finali che bisogna ridurre la contribuzione pubblica a favore dell’investimento del lavoratore nella pensione privata. Questa è la partita vera che si sta giocando e questo spiega l’accanimento vero. Così come nel passato l’accanimento contro la scala mobile alludeva alla compressione generale dei salari, alla riduzione del salario garantito a favore di quello variabile e incerto, insomma, alla redistribuzione del reddito dal lavoro al profitto e all’impresa. Cosa che è puntualmente avvenuta.
Per questo è insopportabile l’arrogante disprezzo con il quale il vicepresidente Massimo D’Alema riduce tutto alla difesa degli interessi corporativi di 200 mila persone. Anche nel 1984, con il taglio della scala mobile deciso dal governo Craxi, c’era chi irrideva alle proteste spiegando che avvenivano sul costo di due pizze e una coca-cola. A parte il fatto che, anche se si trattasse di poche persone saremmo di fronte agli interessi assolutamente legittimi di chi ha lavorato e faticato tanto. A parte il fatto che le persone danneggiate saranno molte di più, visto che si mette in conto il risparmio di molti miliardi sul taglio delle pensioni. A parte tutto questo, ciò che conta è che quest’offensiva punta al progressivo ridimensionamento del sistema pensionistico pubblico. Naturalmente nel nome della sua salvaguardia, sulla base delle regole della neolingua. Per questo lo scontro in corso non può essere mediato facilmente, neppure nel teatrino della politica. Perché se lo scalone, magari ammorbidito come ha spiegato il ministro del Lavoro, resterà, se i coefficienti verranno tagliati proprio a quei giovani che si dichiara di voler tutelare, non solo avremo un danno per alcune generazioni di lavoratori. Ma daremo il via libera a una continua revisione al ribasso del sistema pensionistico pubblico. Che diventerà definitivamente la variabile dipendente dei conti dello stato. Si devono ridurre le tasse ai ricchi? Allora bisogna tagliare ancora un po’ le pensioni. Questo scenario è esattamente lo stesso di quello che accompagnò la «concertazione» sulla scala mobile, che non fu eliminata in una volta sola, ma con tanti accordi, ognuno dei quali veniva proclamato essere ultimo e risolutivo.
Per queste ragioni l’intransigenza nel difendere e nel migliorare la situazione attuale, anziché nell’inoltrarsi nella via del suo peggioramento continuo, è sacrosanta. Non stiamo solo difendendo un diritto che dovrebbe valere in sé nell’Italia delle ingiustizie, delle ricchezze sfacciate, dei privilegi vergognosi che tutti denunciano, ma che comunque restano e crescono. No, lo scontro sulle pensioni riguarda proprio il futuro delle relazioni sociali e dei diritti. La ripetizione su questi temi di un accordo come quello del 1992, non solo aprirebbe la via alla catastrofe del sindacato confederale, ma minerebbe per un lungo tempo l’idea stessa di rappresentanza organizzata e solidale del mondo del lavoro e delle classi subalterne. Rispetto a un tale accordo un forte conflitto sociale e persino una crisi politica sono comunque meglio.