Scattano a ripetizione flash e domande. Guglielmo Epifani, Raffaele Bonanni e Luigi Angeletti sono appena usciti dalla «colazione» con il ministro dell’economia Tommaso Padoa Schioppa. Vorrebbero parlare del «no» alla riforma costituzionale, ma vengono bombardati di domande indiscrete su come sia andato quell’incontro.
Per un po’ stanno al gioco, confermando soprattutto che non ci sono ancora neppure le cifre esatte del disastro dei conti pubblici ammazzati dalla cura-Tremonti, né di conseguenza la dimensione della manovra-bis da varare con il Dpef il 7 luglio. Meno ancora ci può essere il dettaglio delle misure dirette a reperire pronta cassa quei 7-10 miliardi di euro che mancano. Nonostante la ritrosia, alla fin fine, si capisce che i tre hanno ben compreso che i lavoratori verranno chiamati a «fare la loro parte», come avvenne nel ’93 dopo la maximanovra di Amato per coprire il maxibuco del ’92 (continuamente ricordato da Padoa Schioppa).
Ma ritengono di avere illustrato una serie di misure «giuste», oltre che efficaci a reperire risorse; e di avere davanti stavolta un governo disponibile a farle proprie. Tutto parte dalla «lotta al lavoro irregolare», nero, precario; che crea ricchezza (le statistiche ufficiali calcolano un 30% del Pil) ma non contribuisce alla ricchezza del paese e alla sua capacità di redistribuirla tramite la spesa pubblica e il welfare. «Bisogna dare un segno politico chiaro – suggerisce Epifani – mentre si parla di difficoltà nei conti pubblici. La lotta all’evasione, al lavoro nero e irregolare va messa al primo posto e diventa anche un metro di giudizio sull’operato di questo governo».
Non è la prima volta che i sindacati battono su questo punto e lo scetticismo, con gli anni, è cresciuto. Di nuovo c’è che «tutti i nodi sono venuti al pettine» e bisogna trovare soluzioni diverse dal passato. E il dispositivo che il sindacato propone appare ben congegnato. Si parte dall’esempio del «documento unico di regolarità contributiva» messo all’opera per gli appalti pubblici nell’edilizia. Solo le aziende che possono esibirlo hanno diritto di concorrere per realizzare lavori pubblici. Andrebbe «esteso a tutti i settori», propone Bonanni, in modo che «ogni commessa o provvidenza» (statale o regionale, compreso il potere comunale di concedere licenze commerciali) possa diventare un meccanismo selettivo delle imprese «virtuose» rispetto a quelle irregolari.
Di più, aggiunge Epifani, «va introdotto l’indice di congruità» per i lavori pubblici; quel sistema di calcolo che permette di giudicare se chi si aggiudica un appalto è davvero in grado di eseguirlo. E, a chiudere, la «solidarietà fiscale e contributiva tra appaltante e subappaltante», dove il vincitore di una gara si deve far carico degli adempimenti a carico delle imprese cui delega parte del lavoro. L’obiettivo è chiaro: «spezzare la catena» che porta al deterioramento dei rapporti di lavoro e della spesa pubblica, incidendo pesantemente su «quelle complicità e interessi che vanno disboscati in un paese civile».
Basterà questo per impedire che a pagare i costi del risanamento siano ancora una volta i lavoratori? Difficile scommetterci. Ma se il governo accetta «il pilastro numero uno: intervenire là dove c’è un’anomalia», dice Luigi Angeletti, segretario della Uil, allora «le dimensioni di un eventuale intervento saranno molto più ridotte». E certo non a carico delle pensioni, visto che «l’industria vorrebbe prepensionare i propri operai a 55 anni e far lavorare i dipendenti pubblici fino a 80»; mentre il diessino Nicola Rossi vorrebbe prepensionare 100.000 statali per «risparmiare». Forse, per non giocarsi lo stretto margine di consensi con cui ha vinto, questo governo avrebbe davvero una chance in più andando a pescare nell’«irregolare».