«Il Paese nella sua storia ha saputo rispondere a sfide ben più drammatiche». Mario Draghi, il governatore debuttante, ha voluto chiudere la sua prima relazione annuale con una nota di ottimismo. Che in effetti, dal punto di vista del capitale, pare al momento abbastanza fondata. Sono del resto lontani i tempi del “labour standard sulla moneta”, un’espressione che un amareggiato Guido Carli adoperava per ricordare le capitolazioni della Banca d’Italia, le perdite di controllo sulla liquidità da parte dell’Istituto centrale di fronte alle violente spinte rivendicative delle masse operaie. Era l’epoca dell’Autunno Caldo, in cui le grandi istituzioni monetarie e finanziarie erano situate in prima linea nella tormentatissima azione di contenimento del conflitto sociale, di una lotta di classe dalla quale molto ci si attendeva, e per la quale qualcuno addirittura preannunciava il definitivo superamento del capitalismo.
Talmente diversi sono i nostri tempi che Draghi può affermare senza indugio che in un paese come l’Italia, gravato dal peso del più nefando assistenzialismo, «la concorrenza è il miglior agente di giustizia sociale». La concorrenza, la competizione capitalistica pura sarebbe insomma la soluzione per tutti i mali, la panacea non solo per l’efficienza ma anche per l’equità. Peculiare tuttavia è la definizione di concorrenza suggerita da Draghi. Essa infatti, come vedremo, viene invocata in molti ambiti, ma non in tutti. Si parte naturalmente con il settore dei servizi, e in particolare i servizi di pubblica utilità. Il governatore si lamenta per il depotenziamento della direttiva Bolkenstein, ed esorta comunque l’Italia a perseguire, a livello nazionale, l’indirizzo liberista che era contenuto nella stesura originaria del documento europeo. Draghi raccomanda inoltre più concorrenza nei settori dell’istruzione, dell’università e della ricerca, in base all’ardimentoso convincimento che il deficit di lauree, diplomi e più in generale di conoscenza, risiederebbe nelle barriere competitive tra scuola e scuola, tra studioso e studioso. Il governatore insiste poi sulla liberalizzazione del Tfr e dei fondi pensione, strumenti ritenuti indispensabili per stimolare i lavoratori a cautelarsi contro il futuro, dal momento che – Draghi neanche troppo velatamente lo ricorda – le passate riforme hanno praticamente demolito i loro diritti pensionistici. I contratti atipici vengono infine elogiati quali fattori decisivi per l’abbattimento delle cosiddette “rigidità in uscita” e dei relativi costi gravanti sulle imprese. Draghi sembra in tal senso invitare il legislatore a non tornare sui propri passi, e al limite suggerisce di rivedere soltanto il sistema degli ammortizzatori sociali al fine di tutelare «il lavoratore anziché il posto di lavoro». Con quali risorse per la verità non è chiarissimo, visto che il governatore invoca una stretta sui conti pubblici nell’ordine dei due punti di Pil, e al tempo stesso propone di impiegare le risorse rimanenti al fine dell’abbattimento del prelievo fiscale e degli oneri contributivi sulle imprese. Ma quel che conta è in fondo la capacità di definire un indirizzo, una linea d’azione generale: il paese dorme, occorre svegliarlo con una buona dose di competizione capitalistica diffusa.
Dicevamo tuttavia che non dappertutto Draghi sembra volersi avvalere dell’abusata ricetta concorrenziale. Di fronte al grave problema di competitività internazionale del paese, e dei relativi squilibri di bilancia commerciale, il governatore sembra proporre un ben diverso orientamento, questo sì molto più sottile e meditato. Sul versante delle concentrazioni viene infatti sposata una linea accomodante, esortativa, fondata su controlli situati esclusivamente a valle delle operazioni e addirittura sulla rimozione degli ostacoli residui ai matrimoni tra capitale finanziario e industriale (gli stessi matrimoni che Raffaele Mattioli, grande estimatore ed amico di Sraffa, vedeva invece come fumo negli occhi, e ai quali imputava gli effetti più disastrosi del crack del 1929). Dal lato della dinamica salariale, poi, il governatore pare ancor più esplicito: «strumenti di coordinamento nazionale della contrattazione salariale, oltre a costituire un presidio di equità, contribuiscono ad evitare che le dinamiche retributive assumano, nei settori con poca concorrenza e nelle aree con poca disoccupazione, andamenti incompatibili con la stabilità dei prezzi». Una vera e propria apologia della politica dei redditi, dunque, concepita quale fattore decisivo per il contenimento del conflitto nei pochi ambiti in cui i lavoratori appaiono tuttora in grado di esercitarlo.
Pare dunque una concorrenza a mezzo servizio, quella proposta da Draghi. Quando infatti egli passa ad esaminare i nodi strutturali del paese, come la scarsissima concentrazione e organizzazione dei capitali, e le conseguenti difficoltà nel reggere la competizione estera, il governatore abbandona la canonica litania della concorrenza pura e atomistica, e si affida piuttosto ad un’analisi realmente macro-sociale, basata sull’assegnazione di un ruolo preciso ad ognuno degli attori sulla scena: il capitale stimolato ad assorbire, acquisire e concentrare risorse, e il lavoro e le sue rappresentanze ingabbiati nei meccanismi di centralizzazione della contrattazione. In modo da reprimere le spinte rivendicative, e magari persino convincere i sindacati ad uno sforzo ulteriore ed estremo sul versante dell’innalzamento dell’età pensionistica. Siamo di fronte insomma alla più classica delle tenaglie sociali, quella tipica delle fasi di crisi e di ristrutturazione capitalistica. Ai vecchi tempi del “labour standard”, i lavoratori e le loro rappresentanze sindacali e politiche disponevano di numerosi strumenti, teorici e operativi, per sottrarvisi. Oggi è invece tutto molto più difficile. Tuttavia, ritessendo il filo della centralità del lavoro qualche passo nella giusta direzione si potrebbe tornare anche a farlo. Con buona pace, nel qual caso, del governatore debuttante.