Non è mai stata tenera con la sinistra italiana, colpevole – a suo dire – di ritardi storici e culturali, ma sempre dalla parte e con le ragioni della sinistra. Un carattere di ferro, quello di Rossana Rossanda, forgiato prima, giovanissima, nella Resistenza poi all’interno di quella straordinaria scuola politica e di vita che è stato il Partito comunista italiano. Dal Pci fu espulsa proprio nei giorni in cui montava il movimento del ’68, una ferita mai rimarginata del tutto. Oggi la Rossanda rappresenta una delle voci critiche della sinistra più ascoltate e prestigiose. I suoi articoli sono un punto di riferimento per ampi settori del mondo politico progressista italiano. Con lei, in un’intervista esclusiva rilasciata alla Rinascita, abbiamo discusso della sinistra e delle prospettive politiche dopo l’avvio del processo che porterà alla costituzione del Partito democratico.
Prima la fine dell’esperienza del Partito comunista italiano e la nascita del Pds, poi la trasformazione del Pds in Ds, oggi la nascita del Partito democratico: da paese con il più grande e importante partito comunista dell’occidente, l’Italia rischia di non avere più una forza politica che si richiami ai valori della sinistra e del socialismo. Come si è arrivati a ciò?
Quel partito comunista, come tutti i Pc, aveva legato la sua identità non solo alla rappresentanza dei lavoratori italiani, ma alla rivoluzione d’ottobre e all’Unione Sovietica. Ha mantenuto questo riferimento del tutto acritico anche quando l’Urss, dopo la morte di Lenin, assumeva una fisionomia diversa da quella del 1917. Avanzare una critica e marcare un’autonomia sarebbe stato non semplice, ma necessario e possibile almeno dopo il 1945. Non avendolo neppure tentato – salvo con il memorandum di Togliatti per Krusciov, poi lasciato cadere – quando l’Urss è implosa anche il Pci è imploso, gettando nel disorientamento milioni di militanti e elettori. Né prima né dopo la caduta del Muro di Berlino, se n’è fatto, da parte dei partiti comunisti, un serio bilancio storico, lasciando senza risposta, altro che quella liquidatoria degli avversari, le molte domande che ne venivano. Anche il Pci è andato a mani basse davanti all’avanzata neoliberista e anticomunista. E oggi quello che era stato il suo grande bacino popolare è diviso fra una maggioranza che sta volgendo al partito democratico, e gruppi di resistenza, come quello interno di Fabio Mussi o, da tempo fuori, voi del Pdci o Rifondazione, tutti minoritari. Se si aggiunge che la crisi dell’Urss e del campo dell’est esplodeva mentre la scena capitalistica mondiale volgeva a una globalizzazione che i partiti comunisti non avevano previsto né visto venire, le ragioni della sconfitta sono evidenti.
La trasformazione dei Ds da una parte e il nuovo protagonismo del Vaticano e delle forze centriste non impongono alla sinistra di superare antiche e moderne divisioni per presentare un progetto valido per le sfide di questo decennio?
Sì, lo imporrebbero. Ma il passaggio di cui sopra-– trarre dalla storia dell’Urss un bilancio veritiero e non liquidatorio – è necessario per recuperare credibilità. Chi ha intenzione di farlo? Nessuno. Così come nessun si chiede perché all’estensione e all’arroganza del capitalismo mondializzato, inuguagliante e crudele, non corrisponda una altrettanto forte crescita di protesta e coscienza di classe.
Molti invocano l’unità, pochi la perseguono davvero. I personalismi e le rendite di posizione sembrano sempre prevalere. Cosa deve succedere per costringere la sinistra all’unità?
E’ una domanda da rivolgere ai vostri leader.
Il lavoro sembra scomparso dalle agende di molti politici che pure si richiamano alla sinistra. Le polemiche maggiori si riscontrano sui diritti e più spesso solo sulle collocazioni di potere. Eppure la nascita del Partito democratico proporrà un tema fondamentale, ovvero l’uscita di scena della Cgil come sindacato di riferimento del principale partito della sinistra. Il Pd probabilmente avrà la Cisl come riferimento più vicino. Una vera rivoluzione che sembra interessare a pochi. Lei cosa ne pensa?
Non mi pare esatto definire la Cgil come il maggior sindacato di riferimento del Pci o degli attuali Ds, Pdci, Rc. Se mai era il Pci a essere il partito di riferimento della Cgil. E’, in ogni caso, bene che la Cgil non si riferisca ad altro che ai lavoratori nelle vecchie e delle nuove figure create dall’economia globalizzata e dal movimento dei capitali fuori ormai dal controllo dei singoli paesi. Le coordinate storiche nazionali in cui sono nati e cresciuti i sindacati sono del tutto trasformate. Il sindacato stenta a tenere dietro a queste modifiche e quanto a collegarsi internazionalmente, lo fa pochissimo.
Il Pdci ha più volte dichiarato la propria disponibilità ad un progetto di unità della sinistra. La nostra proposta è la confederazione. Ma finora solo silenzio. Anche chi, come “il manifesto”, ha sempre lavorato per la ricomposizione della sinistra non ne ha colto mai gli aspetti positivi. Perché? Forse il sentirsi ancora orgogliosamente comunisti è un peccato imperdonabile per qualcuno?
Non so se il silenzio che incontrate venga dall’essere “ancora orgogliosamente comunisti”. Smettiamola di guardare a noi stessi come i soli nobili e coerenti e agli altri come traditori e vili. Qualche errore avremo fatto se ci facciamo ascoltare così poco. Fra questi ci sono, secondo me, la mancanza di proposta di piattaforma chiara e percorribile nell’Italia del 2007. Anche la nostra crisi di rappresentanza, la soggettività frantumata quando non massacrata dei lavoratori. Come invertire il processo? Non credo a una unità fatta dall’incontro fra stati maggiori che si sono scontrati fino a ieri, con relative ferite e cicatrici. Soltanto alcune linee di programma molto serie e praticabili possono rimotivare una spinta che smuova parti concrete della società, ridia speranza ai salariati e ai precari e così superi le lacerazioni dei partiti. Ma finora sono più le dichiarazioni di intenti “Uniamoci” che le proposte di merito, su “che cosa” e “come”.
Prodi è alla testa di un governo debole. In molti pensano ad un esecutivo diverso, magari aperto a Casini, mentre si cerca di spostare gli equilibri sempre più a destra. Si sente la mancanza di una forza a due cifre della sinistra. Potrebbe essere questa l’occasione per percorsi condivisi?
Se non avviene ora sarà un’occasione perduta. E non è detto che si ripresenti presto.
La guerra, la lotta al terrorismo, l’anticapitalismo, sono discriminanti oggi?
Certo che lo sono, almeno la prima e il terzo, perché la seconda non so che cosa sia se non la politica di Bush dopo l’11 settembre. Ma si può coagulare una forza politica soltanto con una generica, anche se orgogliosa opzione per la pace e il comunismo? C’è stata una grandissima sconfitta del movimento operaio e del pacifismo, e la ferita sanguina ancora; da dove si può concretamente ricominciare? Va detto. E sulla guerra: possibile che tutto quel che sappiamo balbettare è “portiamo a casa i nostri ragazzi”? Il Medio Oriente è tutto una piaga, le speranze di un riscatto sono tutte ripiegate sui paradisi fondamentali, come ricostruire un fronte internazionale in un mondo scoraggiato e sofferente? Su questo bisognerebbe impegnarsi.
Un decennio di Berlusconi ha cambiato l’Italia. Quanti i meriti del Cavaliere e quante le colpe delle forze di sinistra e dell’intellettualità progressista?
Berlusconi ha interpretato un umore che si è andato radicando negli anni 80 e del quale abbiamo qualche responsabilità in molti, oltre che della mancata analisi del capitalismo odierno e dei suoi strumenti di persuasione.