La retroattività avrà effetti devastanti

Siamo alla vigilia di giorni decisivi per la sorte del disegno di legge,
ormai noto come ex Cirielli, diretto ad abbattere drasticamente i termini
di prescrizione dei reati. Domani, infatti, dovrebbe iniziare nell’aula della
Camera l’esame del testo licenziato a fine luglio dal Senato, che – pur avendo subìto una discreta ripulitura nei suoi aspetti più aberranti – continua a presentare obiettivi profili di irragionevolezza, destinati a tradursi in evidenti problemi di incostituzionalità. Profili e problemi che, non a caso, sono stati al centro del colloquio concesso nei giorni scorsi al presidente Berlusconi dal capo dello Stato. Posto che, nei diversi sistemi penali, i termini di prescrizione dei reati vengono ovviamente stabiliti tenendo conto (anche) della concreta durata media dei corrispondenti processi, un primo motivo di irragionevolezza nasce dal rilievo che i termini oggi vigenti sono ancora quelli fissati dal codice penale del 1930, avendo riguardo al processo penale dell’epoca. Da allora la disciplina processuale è largamente mutata (prima con il nuovo codice del 1988, poi con le modifiche conseguenti alla riforma costituzionale sul «giusto processo»), arricchendosi di garanzie ed inevitabilmente allungandosi nei tempi di svolgimento; tuttavia, i termini di prescrizione sono sempre rimasti gli stessi. Tanto è vero che il numero dei reati prescritti è progressivamente salito negli ultimi anni, fino al tetto di oltre 210 mila nel 2004.
Adesso, improvvisamente – attraverso una scelta in palese controtendenza rispetto alla realtà delle cose – si decide di ridurre radicalmente i termini di prescrizione, rispetto a determinate categorie di reati di medio-alta gravità, fino ad abbassarli addirittura della metà in alcuni casi, quando si tratti di imputati incensurati (così, ad esempio, per il delitto di corruzione e per vari altri non lievi delitti). Il che appare tanto più irragionevole, in quanto questa scelta non risulta preceduta da alcuna riforma idonea a propiziare una corrispondente abbreviazione della eccessiva durata dei processi. E nemmeno risulta accompagnata da alcun monitoraggio volto a valutare l’impatto della nuova disciplina sui futuri processi: impatto che si preannuncia traumatico, se i tempi processuali non verranno sensibilmente ridotti. Che un progetto legislativo inficiato da simili vizi di irragionevolezza possa venire definito «giusto» dal presidente Berlusconi e dai suoi più fidati consiglieri, appare davvero sconcertante. Ma lo sconcerto si trasforma in indignazione di fronte alla disposizione transitoria che vorrebbe applicare i nuovi e più brevi termini di prescrizione anche ai processi in corso: senza che una tale regola di retroattività sia imposta dalla Costituzione, e nonostante gli impressionanti dati forniti dalla Corte di cassazione circa i gravissimi effetti «fulminanti» (paragonabili ad una vera e propria amnistia) che ne deriverebbero in chiave di estinzione di processi già avviati e magari conclusi con sentenze di condanna in primo o in secondo grado. L’ipotesi che l’incidenza di questa disposizione transitoria possa venire circoscritta grazie ad un emendamento vòlto ad escludere dal suo ambito i processi pendenti in sede di Appello o di cassazione, è circostanza idonea a rimuovere i peggiori sospetti, circa il poco decoroso intento di usare la nuova normativa per «salvare» questo o quell’imputato. Essa però non rimuove la irragionevolezza di una legge che – per il suo contenuto dirompente, nel contesto di una immutata disciplina processuale – è destinata comunque a devastare il già precario funzionamento della giustizia penale.