Sotto la tenda allestita nel cortile della scuola elementare, ornata da tappeti variopinti ricamati, si sono riuniti per due giorni palestinesi, israeliani, francesi, americani. La “Seconda conferenza sulla resistenza popolare” di Bil’in, villaggio di 1400 abitanti situato a 16 chilometri da Ramallah, dove il muro costruito dallo stato di Israele erode il 60% delle terre, si è conclusa ieri, mentre oggi è prevista, come avviene da due anni a questa parte, la manifestazione di protesta contro l’illegalità e l’ingiustizia rappresentata dalla costruzione di quello che i palestinesi chiamano “Muro dell’Apartheid” ed il governo israeliano definisce “barriera di separazione difensiva”.
Bil’in è diventato il simbolo della lotta non violenta dei movimenti popolari di resistenza locale e internazionale contro l’occupazione e contro un muro che «distrugge il presente ed il futuro del popolo palestinese» e che «nulla ha a che fare con la sicurezza di Israele, ma con altra terra da sottrarre ai palestinesi», come ha affermato in apertura del lavori della conferenza Naser al-Quidua, ex ambasciatore dell’Olp alle Nazioni Unite, incaricato di presentare il caso davanti alla Corte Internazionale di giustizia dell’Aja nel 2004. La corte stabilì che «la costruzione del muro da parte di Israele nei Territori occupati, compresa Gerusalemme» è «contraria alla diritto internazionale», di conseguenza, «Israele ha l’obbligo di smantellare la struttura e provvedere al risarcimento dei danni causati». Era il 9 luglio 2004.
I lavori per la costruzione del muro a Bil’in sono iniziati il 20 febbraio 2005. Per la costruzione della barriera di cemento sono stati sradicati in questo villaggio 1000 alberi di ulivo. Agli abitanti di Bil’in, privati delle proprie fonti di sostentamento si presentavano due alternative, vivere da miserabili o emigrare. Decisero invece di mettere in piedi un comitato di resistenza popolare, che oggi, come ogni venerdì, organizza una marcia di protesta a cui prendono parte anche cittadini israeliani e persone di tutto il mondo. Gli israeliani che da due anni manifestano a fianco degli abitanti di Bil’in contro la costruzione del muro non sono convinti, a differenza del governo che in questo caso non li rappresenta, della necessità di costruire una cortina di difesa 5 chilometri all’interno della Linea Verde. Né della necessità di separare olivi e colture dai legittimi proprietari, distruggendone le fonti di sostentamento. Tra i circa 200 partecipanti alla conferenza, oltre ad internazionali provenienti da organizzazioni sociali di base, gruppi di volontariato, Ong, sindacati, registratisi per prendere parte ai workshop sulle strategie di implementazione di forme di resistenza non violenta, sono stati presenti intellettuali israeliani come lo scrittore israeliano Ilan Pappe, la giornalista e scrittrice Amira Hass, Jeff Alper del comitato contro la demolizione delle case, il ministro della Comunicazione del governo di unità nazionale palestinese Mustafa Barghouti e la vicepresidente del Parlamento europeo Luisa Morgantini. «Quello che da due anni sta avvenendo a Bil’in è esemplare: è la risposta non violenta che israeliani e palestinesi insieme oppongono alla confisca della terra, alla demolizione di case, all’umiliazione dei check-point e alla segregazione del muro, frutto di 40 anni di occupazione militare israeliana», ha dichiarato l’europarlamentare italiana, che ha sottolineato come la resistenza popolare di Bil’in faccia tornare in mente i giorni della prima Intifada, «quando non c’erano le bandiere di Hamas e Fatah, ma solo la bandiera palestinese». Quarant’anni di occupazione sono abbastanza, ha dichiarato la Morgantini, convinta della necessità del riconoscimento del nuovo governo di unità nazionale palestinese da parte della comunità internazionale, in quanto «opportunità unica» e probabilmente «l’ultima» via per rilanciare un negoziato di pace tra israeliani e palestinesi. Il villaggio di Bil’in è uno dei 92 villaggi della Cisgiordania la cui esistenza è stata sconvolta dalla costruzione del muro, che, secondo l’anti-Apartheid Wall Campaign, una volta terminato, ingabbierà in una cortina di cemento estesa per 730 km, 361mila persone, annettendo di fatto il 47% della West Bank. Questo avviene contemporaneamente all’avvio degli incontri bisettimanali tra Olmert e Abbas, a cui è affidato mandato di negoziare la pace, affinché un giorno possano coesistere l’uno accanto all’altro lo Stato israeliano e quello palestinese, i cui confini per gli abitanti di Bil’in come degli altri villaggi-bantustan circondati dal cemento, non possono essere quelli delineati dal muro, ma unicamente quelli stabiliti dalle risoluzioni internazionali.