Lo strappo del presidente della Camera, Fausto Bertinotti, può sorprendere solo chi pensa che la politica si faccia tutta in Transatlantico, che l’unica legge sia il tornaconto e la sola bussola la tattica. La politica del tempo seguito alla fine dei vecchi partiti — un tempo che non è poi così male, dopo mezzo secolo senza alternanza e con decine di crisi decise non da un voto parlamentare o popolare ma dalle alchimie di Palazzo — non può prescindere dall’umore degli elettori; e Bertinotti vede i propri voti dimezzarsi. Quasi metà del partito era contraria all’alleanza con Prodi già prima delle elezioni; figurarsi ora. Soprattutto: la formazione, la mentalità, l’essenza di un uomo come Bertinotti lo spinge verso l’opposizione. Pensare che i comunisti sarebbero stati fedeli sino alla fine a Prodi non avendo altre possibili alleanze, altri posti dove andare, era sbagliato. Il punto adesso non è vedere chi si assume la responsabilità dì aprire la crisi, ma chi ne rivendicherà il merito. La corsa a intestarsi la caduta di Prodi è partita da tempo, e Bertinotti si sfilerà un minuto prima di Dini.
Se ci si mette nei panni del presidente della Camera, le sue conclusioni sembrano inevitabili, o almeno comprensibili. La favola di Prodi ricattato dalla “sinistra radicale” non la credono neppure Vito e Schifani, che pure la recitano ogni sera. La base di Vicenza si fa, i Dico no. In Afghanistan si resta. La tassazione sulle rendite non cresce: dopo due anni di governo Prodi, che aveva costruito la campagna elettorale sul taglio delle tasse sul lavoro, l’impiegato che ottiene un aumento di stipendio se lo vede dimezzare dal fìsco, lo speculatore che vince in Borsa continua a pagare poco più di un decimo. Rifondazione ha votato quasi senza batter ciglio due finanziarie criticabili, soprattutto la prima, però scritte da Padoa Schioppa, non da un neomarxista.
Ma la causa dell’ininfluenza di Rifondazione è anche nella scelta di Bertinotti. Difficilmente il Prc avrebbe potuto contare di più, dentro un governo in cui quasi non è entrato. Nell’esecutivo Bertinotti ha mandato un solo esponente del partito, tra l’altro non di primo piano, riservando per sé un ruolo di rappresentazione più che di rappresentanza: abbracci con Morales presidente cocalerò in maglione etnico, altri abbracci con Chàvez in divisa; un po’ di mondanità, una particina a teatro. Anche un uomo stimato pure in ambienti a lui molto lontani ha dato l’impressione di cedere alla logica della politica come recita, di una politica che dibatte se lasciare o togliere la foto di Napolitano dai palazzi comunali, se mettere o levare la scritta “città della pace” all’ingresso delle città; che galleggia sulla superficie delle cose senza scendere nella vita delle persone, che discute di nomi e simboli ma non affonda nella carne viva dei patimenti e delle speranze. Se anche la sinistra partecipa di questo spirito del tempo, la sua sorte è segnata. E non è detto che far cadere un governo sia la soluzione.