La rabbia degli impotenti. E la Cosa rossa s’allontana

Rabbia. Impotenza. Per descrivere la condizione di Rifondazione in questo momento bisogna coniugare queste due parole. Una da sola non basta a spiegare la cronaca di una giornata disastrosa per i neocomunisti. C’è Fausto Bertinotti che alle 12 si arrabbia al telefono dal suo scranno di Montecitorio con Romano Prodi avvisandolo in termini perentori: «Come possiamo appoggiare un governo che ci tratta così sul Welfare?». E otto ore dopo legge nell’aula della Camera una lettera indirizzata al premier in cui critica la decisione del governo di porre fiducia non sul testo licenziato dalla commissione parlamentare, ma, di fatto, su quello preesistente: «Un atto irrispettoso nei confronti del Parlamento». Ed ancora c’è il segretario Franco Giordano che parla di verifica a gennaio, che reinterpreta a suo modo lo schema del «nemico» Lamberto Dini: «Nell’aula della Camera dirò che non esistono più vincoli di maggioranza, che quando il governo non porrà la fiducia noi voteremo come vogliamo. Ormai il programma dell’Unione appartiene al museo delle cere, quello nuovo subisce l’ipoteca di Confindustria». E poi c’è la rivolta di mezzo gruppo della Camera: dieci deputati capitanati da Ramon Mantovani votano contro la fiducia al governo è altri cinque si astengono in un gruppo che ne conta in tutto 35. C’è la delusione anche dei verdi e della sinistra democratica per non parlare dei socialisti: «A gennaio ci vuole non solo un nuovo programma – avverte Enrico Boselli – ma anche un nuovo governo». E i neocomunisti si debbono sorbire i canti di vittoria di un Dini che liberatosi dalla disciplina di maggioranza ha conquistato una seconda giovinezza: «La sinistra antagonista ha subito una sonora sconfitta. Ora verificherò il testo per decidere se votarlo o meno».
Appunto. Rabbia e impotenza. Ai neocomunisti pesa questa condizione. Oliviero Diliberto che se ne sta in silenzio e Marco Rizzo che avverte: «Alla fine di questa vicenda trarrò le mie conclusioni». Eppure la loro rabbia non ha sbocchi. Tutto è rinviato al futuro secondo lo «schema» bertinottiano che per il momento Rifondazione può far tutto meno che uscire dal governo: «La verità – osserva il Presidente della Camera in uno dei corridoi di Montecitorio – è che c’è un’area politico-economica che preferirebbe tenere Rifondazione fuori dal governo. Per cui il gioco è quello di esasperare noi per spingerci alla crisi o, di contro di dare una motivazione a Dini per mandare giù Prodi».
Una prospettiva che, almeno per il momento, il presidente della Camera vuole impedire. Tra le tante congetture che tentano di spiegare la «linea Bertinotti» (ce ne sono per tutti i gusti: si va dalla delicatezza
dell’attuale fase al nuovo amore per le poltrone) quella che più convince riguarda il «deficit strategico» con cui dovrebbe fare i conti Rifondazione aprendo una crisi ora. «Se il governo cadesse adesso – ha fatto presente in più di un’occasione ai suoi il leader di Rifondazione – bisognerebbe andare a votare con questa legge. E noi come potremmo riallearci con il Pd? Aspettiamo di vedere verso quale tipo di legge elettorale stiamo andando. A quel punto potremmo ragionare ed essere più liberi…». Solo che la situazione per i neo-comunisti potrebbe diventare ancora più complicata. Ad esempio, se si arrivasse ad un sistema simile allo «spagnolo» come predica Walter Veltroni e ieri ipotizzava anche Silvio Berlusconi, per Rifondazione i guai aumenterebbero. «Quel sistema – sostiene da giorni il capogruppo del Senato, Russo Spena – per noi sarebbe esiziale: i partiti che raggiungono il 6-10%, cioè come il nostro, verrebbero penalizzati rispetto ai più grandi e a quelli che hanno grandi concentrazioni localistiche». A quel punto la strada della «crisi» e delle elezioni con l’attuale legge per Rifondazione da «handicap» potrebbe diventare una soluzione. Insomma, se il presente è complicato, il futuro sembra esserlo altrettanto. Tantopiù che dopo la «grossa sconfitta» (l’espressione è di Dini) sul «Welfare», Rifondazione ne potrebbe subire una altrettanto pesante al Senato sul decreto sicurezza. Il presidente del gruppo del Pd, Anna Finocchiaro, infatti, ha messo la sinistra antagonista di fronte ad un’alternativa tutt’altro che entusiasmante: «Se fossi in voi – ha spiegato a Russo Spena – accetterei i due emendamenti che la destra ha posto come condizione per votare il provvedimento. Se non lo fate c’è il rischio che Dini cominci ad allearsi con la destra e in questo caso, invece di due emendamenti ne passerebbero duecento».
Ecco perché la strada da qui a gennaio per gli uomini di Bertinotti potrebbe trasformarsi in un vero calvario. Qualcuno dentro il gruppo al Senato potrebbe scegliere di venir meno alla disciplina di partito: Franco Turigliatto e Fernando Rossi sono sempre più all’opposizione di questo governo e la stessa rotta potrebbe essere presa da un altro senatore neocomunista come Fosco Giannini. Già, l’insofferenza nella base parlamentare di Rifondazione aumenta. «Se avessimo aperto una crisi ora – spiega Ramon Mantovani capofila dei deputati che volevano “sfiduciare” Prodi – avremmo avuto una verifica vera. Non vedo dov’era il problema. O meglio, il problema è uno solo: tra noi c’è chi vuole stare al governo solo per attuare un progetto e chi, invece, pensa che l’andare al governo sia il fine di ogni politica. Un atteggiamento, quest’ultimo, che appartiene a molti dentro la cosiddetta “Cosa rossa”. Penso però che se la condizione per fare questo nuovo soggetto politico è appoggiare un governo “anti-democratico”, che se ne frega delle decisioni del Parlamento, noi la “cosa rossa” potremmo anche farla saltare. Tra noi c’è tanta gente che ne ha le scatole piene. Non per nulla l’idea di una consultazione per chiedere alla base se vuole stare al governo o meno, votata per ben due volte dal comitato nazionale, la segreteria del partito prudentemente l’ha riposta nel cassetto».