Sarebbe esagerato dire che la Cgil, per come l’abbiamo conosciuta dopo il G8 di Genova, al Circo Massimo in difesa dell’articolo 18, o nella raccolta di 5 milioni di firme contro la precarietà, o nelle manifestazioni per pace, ha chiuso una fase. Sarebbe come dire che la più importante organizzazione di massa italiana ha esaurito la sua spinta propulsiva. Quella spinta, cioè, che negli anni bui del berlusconismo, aveva offerto un argine, uno sbocco alla parte maggioritaria di un paese non pacificato. Un paese ferito dal liberismo e dalla spettacolarizzazione della politica che cancella il lavoro, umiliando così gli uomini e le donne in carne e ossa, ma non pacificato. Più che un sogno – non è stagione di sogni – una casa comune, un laboratorio di democrazia.
Forse, speriamo, quella spinta propulsiva non si è esaurita. Ma la stagione politica è cambiata, ci spiegano. Berlusconi l’abbiamo rimandato a casa e ora al governo ci sono le forze democratiche. Nessuna nostalgia per il passato, salvo forse per la forza e l’autonomia con cui la Cgil aveva funzionato da motore della ricostruzione sociale. La domanda è molto semplice: la volontà politica e dunque la capacità di mobilitazione della Cgil che hanno aiutato questo cambiamento non sono più necessarie, nella nuova fase politica? Il quesito è materialissimo, non ideologico. Riguarda le risposte che il nuovo governo sta approntando alle domande di ieri sul lavoro, la precarietà, la democrazia. Qual è la direzione di rotta intrapresa da Prodi, Padoa-Schioppa e Damiano? E’ visibile un’inversione di tendenza?
Di questo si discute all’interno della Cgil. Le posizioni emerse al direttivo nazionale che si è chiuso ieri a Roma sono tutte legittime, ancorché diverse e talvolta opposte tra loro. Lo «scandalo» che ha esplicitato il confronto è la partecipazione di parti della Cgil alla manifestazione del 4 novembre contro la precarietà. E’ bastato uno slogan – o pubblicità, o striscione che dir si voglia – dei Cobas contro il ministro Damiano «amico dei padroni» perché la segreteria della Cgil chiedesse a tutti i suoi militanti di restarsene a casa. Come se la lotta alla precarietà potesse passare in second’ordine. Chi non è rimasto a casa, come la Fiom e le aree programmatiche Lavoro e società e Rete 28 aprile – è finito sotto processo, con capi d’imputazione diversi. Come in anni terribili, si è tornati a parlare di violenza, se non peggio, e come se il suo rifiuto debba essere accompagnato da una rinuncia al conflitto sociale e sindacale. Negli anni passati la Cgil è stata capace di dialogare con tutti a sinistra, mettendo al centro i contenuti. E’ un’operazione, persino egemonica, possibile solo quando al governo ci sono gli avversari? I toni da corrida registrati al direttivo della Cgil, la tentazione di arrivare alla resa dei conti con la Fiom, addirittura il richiamo burocratico agli strumenti sanzionatori per chi esprime posizioni molto diverse come Giorgio Cremaschi, fa temere per il futuro. Quando si tratterà con padroni e governo sulle pensioni e sulla precarietà, quando Confindustria tenterà di affossare il sistema contrattuale e di sfondare il regime degli orari.
Il gioco non è chiuso, ma la Cgil deve decidere se vuole nuovamente offrirsi come casa comune, oppure se considerare finita la ricreazione, e tornare al quel triste 21 luglio del 2001, quando a sfilare nelle strade di Genova contro il G8 c’erano solo alcuni pezzi di Cgil. Quegli stessi che hanno sfilato contro la precarietà il 4 novembre.