PALESTINA & ISRAELE
alcune note informative generali
“Rocce e spine non producono vita e se la vita viene ficcata
a forza nelle fessure di un piano roccioso e spinoso
la si costringe a trsformarsi in rocce e spine.
La vita non può sottomettersi nonostante tutta la brutalità,
la cattiveria e la perfidia umane, perché riesplode sempre
verso l’alto, ai lati, dal basso,
per quanto oggi possa sembrare sottomessa.
E se pure la costringono a pietrificarsi,
non c’è dubbio che un giorno gli esploderà in faccia”
[Giabra Ibrahim Giabra, poeta palestinese]
IL SIONISMO
Nascita e ideologia
Il movimento sionista nasce alla fine del secolo scorso (Congresso di Basilea del 1897) “nel bagliore de-gli incendi provocati dai pogròm russi del 1882 e nel tumulto dell’affare Dreyfus” (Abraham Léon, La con-cezione materialista della questione ebraica). Esso deve al giornalista viennese Theodor Herzl il fondamento teorico, l’organizzazione, così come una “diplomazia”. Quattro ipotesi sono alla base dell’edificio costruito da Herzl:
1. l’esistenza di un popolo ebraico;
2. l’impossibilità della sua assimilazione da parte della società nella quale si è velocemente disperso;
3. il suo diritto alla “Terra promessa”;
4. l’inesistenza su questa terra di un altro popolo che abbia anch’esso i suoi diritti [cfr. A. Gresh – D. Vi-dal].
Il sionismo si fonda dunque sul mito messianico del ritorno alla “terra promessa”. Come osserva Walter Laqueur (Storia del sionismo) “il sionismo ha elaborato un’ideologia, ma le sue pretese ‘scientifiche’ sono inevitabilmente poco convincenti”:
1. Il dibattito sul concetto stesso di ebreo rimane aperto: eccetto la religione, a cui non tutti sono fedeli e che non basta senza dubbio a caratterizzare un popolo, quali saranno i criteri unificatori di questa realtà na-zionale? Razziali? Territoriali? Linguistici?
2. La questione dell’assimilazione nei paesi europei e americani è ugualmente controversa: interrotta bru-talmente dall’ondata antiebraica della fine del secolo scorso, poi dall’olocausto, essa non si era per questo affermata nettamente; si è addirittura rafforzata all’indomani dello sterminio nazista di 6 milioni di ebrei. Nel 1985 gli ebrei nel mondo erano tra i 16 e i 18 milioni, di cui circa 3,5 in Israele, da 6 a 6,5 milioni in Nord America, 0,5 in America Latina, circa 3 in URSS, 0,5 in Francia e altrettanti in Gran Bretagna; 35.000 in Ita-lia.
3. Il riferimento al testo sacro (la Bibbia) di una religione (in un territorio in cui se ne sono diffuse altre, quali il cristianesimo e l’islamismo) non può legittimare la pretesa unilaterale alla Palestina. Così come non può farlo il riferimento a una occupazione (su 12 altre) di questa terra. Infatti i regni ebraici fondati in Pale-stina verso il 1000 a. C. erano caduti sotto i successivi assalti degli Assiri, dei Babilonesi e dei Romani. Quando viene soffocata la rivolta di Bar Kokhba, nel 135 d.C., è il segnale della partenza per la maggioranza delle popolazioni ebraiche. Una piccola minoranza risiede a Gerusalemme, Safed, Tiberiade e Hebron: nono-stante i pellegrini che erano ritornati, e soprattutto gli esiliati della penisola iberica, alla fine del XV secolo, la comunità ebraica di Palestina non conterà che una decina di migliaia di anime all’inizio del XIX secolo. Gli altri formano in tutto il mondo la diaspora [cfr. Gresh-Vidal].
4. La pretesa sionista sulla Palestina escludeva un altro popolo, i palestinesi, di cui si ignorava perfino l’esistenza. Molti degli ebrei di Russia e Polonia che erano stati invogliati a dirigersi verso la Palestina cre-devano si trattasse di una terra disabitata o quasi e furono turbati nell’accorgersi del contrario. In una lettera a Herzl un leader ebreo scrisse: “Ma allora noi commettiamo un’ingiustizia!”.
“Le sofferenze ebraiche possono forse giustificare l’aspirazione di certi ebrei a formare uno Stato indi-pendente. Ma questo non può apparire per gli arabi una ragione sufficiente perché questo Stato si formi a loro spese” (Maxime Rodinson). I palestinesi infatti non ebbero nulla a che vedere con le persecuzioni antie-braiche.
Diffusione e sviluppo
“Al I Congresso sionista, tenutosi a Basilea nel settembre del 1897, Theodor Herzl … parlò del futuro Sta-to ebraico, che si sarebbe costituito entro 50 anni, ne illustrò la struttura e il modo per realizzarlo. Il sionismo venne contrapposto alle tendenze all’integrazione che erano state fino allora dominanti soprattutto nelle co-munità ebraiche dell’Europa Occidentale, in concomitanza con l’estensione dei diritti democratici e dell’uguaglianza tra i cittadini. Si costituirono una Banca nazionale ebraica (1898) e un Fondo nazionale e-braico per sfruttare razionalmente le terre acquistate in Palestina. Qualsiasi altra soluzione – come per esem-pio quella dell’inglese Joseph Chamberlain, di concedere una parte dell’Uganda agli Ebrei – fu decisamente respinta (1903 – VI Congresso sionista)” (cfr. Enciclopedia storica Zanichelli).
Lo sviluppo del sionismo dipende anche in gran parte dal modo in cui intendono usarlo le potenze del tempo: la Russia degli zar per frenare il contagio rivoluzionario (i cui capi sono di origine ebraica); la Ger-mania, i cui dirigenti sperano di sbarazzarsi di una comunità ebraica numerosa e influente; il sultano ottoma-no, che cerca di riempire le sue casse vuote; ma, soprattutto, la più grande potenza coloniale del tempo, la Gran Bretagna, per radicarsi sempre più nel Medio Oriente e proteggere Suez.
L’Inghilterra resterà il principale alleato dei sionisti, anche se la sua preoccupazione di non compromet-tersi agli occhi degli arabi (che ha usato nel corso della I guerra mondiale contro l’Impero Ottomano, promettendo, senza concederla, l’autodeterminazione) rende a volte difficile quest’alleanza (gli inglesi – che dal 1922 hanno il mandato della Società delle Nazioni sulla Palestina – pubblicano alcuni “libri bianchi”, nel 1922, nel 1930, nel 1938, per limitare l’immigrazione ebraica in Palestina). Ma la base economico-politica di questa alleanza è abbastanza solida: proteggendo il canale di Suez, “l’Inghilterra – esclamerà Chaim Wei-zmann – avrà una barriera solida, e noi avremo un paese”. Il ruolo, affidato al sionismo, di difesa degli inte-ressi coloniali e imperialistici appare evidente nella guerra del 1956 scatenata da Francia, Inghilterra e Israele contro l’Egitto di Nasser che aveva nazionalizzato il canale di Suez.
Per gli Usa, che ereditano gli interessi dell’imperialismo inglese, Israele continuerà a svolgere questa fun-zione di controllo degli interessi del capitalismo occidentale in Medio Oriente, anche se tale alleanza non è esente da contraddizioni, nel momento in cui la superpotenza USA punta a legare a sé le petromonarchie.
__________________________________________________________________
documento
__________________________________________________________________
LA DICHIARAZIONE BALFOUR
Un dirigente sionista, H. Samuel, nel 1914, aveva cercato di ottenere il consenso di E. Gray, ministro de-gli affari esteri britannico, alla nascita dello Stato ebraico: esso sarebbe stato un valido alleato britannico vi-cino al canale di Suez e avrebbe ostacolato la nascita di uno Stato arabo indipendente in Siria e Iraq. Sul momento gli inglesi nicchiarono. Ma quando nel 1916 la guerra sembrava essere in fase di stallo per gli eser-citi dell’Intesa, Lloyd George, allora primo ministro, giocò una carta in favore dei sionisti, convinto che gli ebrei americani avrebbero fatto pressione sul governo Usa perché intervenisse in guerra a fianco dell’Intesa. Furono avviate trattative tra il comitato sionista e la Gran Bretagna. Gli ebrei accettarono il protettorato britannico ed ebbero in cambio la promessa che sarebbe stata facilitata l’emigrazione di ebrei in Palestina. Il progetto incontrò l’opposizione dei francesi, che alla fine cedettero, visto che la posta in gioco era l’ingresso degli Usa a fianco dell’Intesa. Alla fine delle trattative gli inglesi formalizzarono la dichiarazione Balfour (nuovo ministro degli affari esteri britannico) sotto forma di lettera. Eccone il testo:
Ministero degli Affari Esteri, Londra 2.11.1917
Caro Lord Rotschild,
Sono molto lieto di inviarle da parte del governo di Sua Maestà la seguente dichiarazione di simpatia per le aspirazioni degli ebrei sionisti, che è stata sottoposta ed approvata dal Gabinetto.
Il Governo di Sua Maestà vede con simpatia lo stabilirsi in Palestina di un focolare nazionale per il po-polo ebraico ed userà i suoi migliori uffici per facilitare il conseguimento di questo obiettivo, essendo chia-ramente comprensibile che nulla sarà fatto che possa pregiudicare i diritti civili e religiosi delle comunità non ebraiche esistenti in Palestina o i diritti e gli statuti politici che gli ebrei godono in ogni altro paese.
Le sarò grato se porterà questa dichiarazione a conoscenza della federazione sionista.
Sinceramente vostro
Arthur James Balfour
Non tutti gli ebrei inglesi erano favorevoli alla dichiarazione e ciò provocò una scissione tra le loro file. Questi ebrei dissidenti volevano fare della Palestina un centro spirituale per ebrei e si opponevano alla crea-zione di uno Stato ebraico. Interessante è l’opposizione alla dichiarazione Balfour del ministro degli affari dell’India, Montagu, ebreo, che diceva:
– l’ebraismo è una religione; gli ebrei sono persone appartenenti a diverse nazionalità che professano la religione ebraica come i cristiani e i musulmani, che sono uniti da un’unica religione, ma sono di diverse na-zionalità;
– gli ebrei perciò non sono un popolo in senso politico, per cui la Palestina non può essere un focolare na-zionale ebraico.
Egli usava dire che gli ebrei della Gran Bretagna non erano ebrei inglesi, ma inglesi ebrei.
Le conseguenze che traeva erano queste:
– il sionismo non rappresenta tutti gli ebrei della diaspora, perché molti di essi si oppongono al sionismo come movimento politico razziale aggressivo;
– il principio dell’autodeterminazione deve restare l’elemento principale per l’avvenire dei popoli; le po-polazioni della Palestina, tuttavia, non sono state interpellate sulla scelta del loro destino;
– la dichiarazione Balfour è una violazione della promessa di libertà fatta agli arabi, del diritto all’autodeterminazione garantito da tutte le convenzioni e patti internazionali.
Dal punto di vista strettamente guridico, inoltre, la Gran Bretagna non aveva il diritto di fare tale dichia-razione, perché nel 1917 la Palestina era ancora sotto dominio ottomano e non britannico: veniva violata la norma secondo cui “nemo dat quod non habet”.
A quella data gli ebrei non superavano il 9% della popolazione della Palestina: 60.000 abitanti su 670.000.
Con questa dichiarazione comincia la tragedia del popolo palestinese, che, secondo Bertrand Russell, “consiste nel fatto che il loro paese è stato dato da una potenza straniera ad un altro popolo per crearvi un nuovo Stato”.
LO STATO DI ISRAELE
Formazione dello Stato
Le prime famiglie che arrivarono in Palestina alla fine dell’800 non avevano neppure sentito parlare di sionismo. Venivano dalla Russia, sfuggivano ai pogròm ed erano influenzate da un vago socialismo. Il popo-lo ebraico, pensavano, doveva redimersi dal peso di una tradizione che lo vedeva esclusivamente commer-ciante e usuraio. Doveva riacquistare il contatto con la terra, la capacità di ottenerne, lavorando e soffrendo, i frutti. Il lavoro doveva essere svolto in comune: nacque allora l’idea del kibbutz, una specie di azienda a-gricola collettiva. Nessuno dei nuovi emigranti pensava invece di fondare qui uno Stato. Gli arrivi comun-que erano scarsi. Aumentarono quando ricchi uomini d’affari ebrei, europei e americani si consociarono per favorire l’emigrazione in Palestina, fornendo a chi decidesse di andarvi i soldi del viaggio e i mezzi necessari per iniziare una propria attività. (Ciò si potrebbe configurare come l’avvio di una colonizzazione di tipo capi-talistico ad opera di un pool di capitali internazionali).
Nel 1890 gli ebrei di recente arrivo in Palestina erano 8.000 (circa 65.000 vi abitavano da tempo imme-morabile in pacifica simbiosi con i palestinesi); diventarono 85.000 nel 1914, mezzo milione intorno al 1930. All’inizio l’immigrazione non presentò particolari problemi: c’era spazio per tutti. Col tempo però, e con l’aumentare del numero degli ebrei immigrati, i problemi sorsero, e si acutizzarono gravemente. I nuovi ve-nuti acquistavano le terre migliori dai grandi latifondisti arabi che vivevano in città, e ne cacciavano poi i contadini per sostituirsi ad essi. Cercavano di escludere gli arabi dal mercato del lavoro: datori di lavoro e-brei potevano assumere solo lavoratori ebrei.
La massiccia immigrazione di ebrei dotati di sia pur modesti capitali, nonché del ricco patrimonio di espe-rienza tecnica e scientifica dei paesi da cui provenivano, in un paese povero, abitato da una popolazione dedita ancora a forme primitive di economia agricola e pastorale, modificò il precedente equilibrio della regione, aprendo contraddizioni che erano non solo di carattere nazionale, ma anche economico- sociale. Così i buoni rapporti iniziali si ruppero rapidamente.
Già nel 1929 vi sono scontri tra palestinesi ed ebrei; nel 1936 l’Alto comitato arabo proclama uno sciope-ro contro l’immigrazione ebraica. La risposta all’acuirsi di queste contraddizioni fu l’affermarsi – nonostante la proposta, negli anni Trenta, di un illustre esponente ebraico, il filosofo Martin Buber, di costituire una co-munità binazionale, giudeo-araba – di una linea “dura” che si riassumeva nel proposito di cacciare i 700.000 palestinesi oltre il Giordano.
Alle grandi potenze imperialistiche, d’altronde, arride l’idea di un paese di cultura occidentale, quasi un pezzo d’Europa in Medio Oriente, capace di svolgere il ruolo di spina nel fianco di quel mondo arabo che il petrolio rendeva sempre più ricco di preziose attrattive.
La costituzione statuale di Israele
Viene formata una Knesset, assemblea costituente legislativa e si approvano alcune leggi fondamentali, ma non una Costituzione nel senso stretto del termine. Nel 1948-49, infatti, il leader laburista Ben Gurion cede alle pressioni dei capi religiosi e rinuncia a dare una Costituzione. La sola legge a cui un ebreo deve ub-bidire, spiegavano i religiosi, è la legge divina. In tal modo dalle leggi fondamentali dello Stato di Israele emerge – come del resto era sempre stato sostenuto dai teorici del sionismo – che soltanto i cittadini di stirpe e religione ebraica godono della pienezza dei diritti in Israele, mentre quanto rimaneva della popolazione pa-lestinese originaria è relegato in una situazione subalterna insuperabile (cfr. Enciclopedia storica Zanichel-li).
Nel 1950 viene promulgata una legge considerata fondamentale: la legge del ritorno, in base a cui ogni ebreo ha diritto di entrare in Israele come oleh (colui che sale, cioè che torna). Ad ogni ebreo è concessa au-tomaticamente la cittadinanza israeliana, anche se non rinuncia a quella di origine. Non è ammesso invece il ritorno dei palestinesi che nel ‘48 abbandonarono terra e case. La minoranza palestinese rimasta in Israele ebbe la cittadinanza, ma di seconda classe. Venne dispensata dal servizio di leva (è sempre pericoloso con-cedere agli oppressi l’uso delle armi …), sottoposta a regime militare col pretesto che viveva in zone di fron-tiera: permessi per potersi spostare da una zona all’altra, carte d’identità speciali. Per le terre, sempre sotto l’ombrello di misure per la sicurezza militare, si andò a confische di massa con indennizzi in denaro. L’Onu ha calcolato che solo con le confische i palestinesi hanno perduto il 40-50% della loro terra.
La vita personale degli israeliani – status ebraico, matrimonio, divorzio, eredità – dipende esclusivamente dai tribunali rabbinici. “Vi è un’impossibilità giuridica – spiega il giurista israeliano Claudio Klein – a con-trarre in Israele matrimonio tra un ebreo e un non ebreo”. I rabbini hanno il controllo dell’istruzione religiosa nelle scuole pubbliche, oltre che il finanziamento per il proprio sistema di istruzione.
Dal 1981, con la destra al potere, s’impone un’applicazione più rigida da parte degli organismi statali del-le regole religiose (riposo del sabato – chabat, codice alimentare religioso – cacherut). Gli ultraortodossi reli-giosi hanno chiesto negli ultimi tempi anche la revisione della legge su “chi è ebreo”, che è a fondamento dell’attribuzione della nazionalità israeliana. “E così gli israeliani, che per il 25% si proclamavano distaccati da qualsiasi pratica religiosa e per il 45% laici, benché osservanti di qualche tradizione, subiscono una specie di teocrazia tra le più retrograde del suo genere” (cfr. Gresh-Vidal).
Struttura economica di Israele oggi
Israele conta circa 4,5 milioni di abitanti – 3,8 milioni di ebrei, 700.000 palestinesi – e copre all’interno delle sue frontiere, precedenti la Guerra dei sei giorni (1967), dette linea verde, 21.000 kmq. Ad essi più tar-di si aggiungono i territori annessi: il Golan siriano (2.000 kmq), Gerusalemme; e i territori occupati: la Ci-sgiordania (5.440 kmq), la striscia di Gaza (330 kmq), in cui vivono oltre un milione di palestinesi; e la stri-scia detta di sicurezza a sud del Libano (850 kmq).
Se da poco più di 700.000 abitanti nel 1948 la popolazione ebraica è passata a quasi 3.800.000 nel 1988, la crescita dipende molto dall’organizzazione dell’immigrazione (aliya), mediante la quale, in 40 anni, circa 1.800.000 immigranti si sono sistemati in Israele, anche se ne sono ripartiti dai 300.000 ai 500.000.
Il Prodotto interno lordo supera oggi i 35 mila miliardi di lire, pari a un reddito medio annuo a persona di circa 8 milioni. Le esportazioni sono mediamente di 9 mila miliardi di lire e le importazioni di circa 13 mmd (con un disavanzo commerciale, quindi, di 4 mmd), pur nell’ambito di una politica che spinge all’esportazione, limitando il consumo interno. Va osservato che la maggior parte dei traffici di importazione e espor-tazione riguarda le armi e i diamanti [a quest’ultimo proposito si pensi che il valore annuo del solo traffico di diamanti – mella triangolazione con Belgio e Sud Africa – raggiunge i 3 mmd: la contropartita dei diamanti grezzi sudafricani è costituita perlopiù, appunto, dalle armi, su cui finora era in vigore il formale embargo occidentale verso il Sud Africa; con la sua rimozione è probabile che tutto questo settore di traffici ne risenti-rà significativamente]. A parte i due paesi appena citati per il traffico specifico armi-diamanti, la maggior parte dell’interscambio estero (un quarto del totale) avviene con gli Usa; seguono la Gran Bretagna (per poco meno di un decimo), la Germania, l’Olanda, la Francia e la Svizzera.
Il debito estero di Israele ha superato i 25 mmd (di lire), raggiungendo così l’80% del prodotto annuo. Un tale debito, che in buona parte è verso gli Usa, si registra nonostante i considerevoli versamenti che conti-nuano ad essere fatti dalla diaspora per lo sviluppo di Israele; a parte gli oltre mille miliardi versati dalla Germania a titolo di “indennizzo”, vanno considerati i circa 60 mmd di “aiuti” del governo Usa. Quest’ultimo sembra essere un aspetto decisivo: nei tempi più recenti gli Usa hanno dato al governo di Israe-le poco meno di 4 mmd l’anno (pari a circa un milione di lire per israeliano) in “aiuti” economici e soprattut-to militari.
L’agricoltura, il cui successo dipende dall’applicazione di tecniche ultramoderne, è uno dei settori di punta dell’economia di Israele, ma fornisce appena il 10% dell’esportazione, e attraversa comunque un de-clino storico tipico del settore, nel modo di produzione capitalistico. Essa è organizzata nelle seguenti forme:
– proprietà collettiva della terra con un sistema di comuni (kibuzim) in cui lavora circa il 30% della popo-lazione ebraica contadina (e circa il 3% degli israeliani in generale)
– cooperative (moshavim)
– proprietà privata.
Kibuz e cooperative assicurano insieme circa il 70% della produzione agricola. Tuttavia, con lo sviluppo di Israele come potenza capitalistica e pedina rilevante nel sistema dell’imperialismo mondiale, con lo sfrut-tamento massiccio dei palestinesi dei territori occupati, all’originale ideale socialisteggiante dei kibuzim si va sostituendo una realtà di speculazione fondiaria che batte tutti i record: molte colonie agricole sono oggi sull’orlo del fallimento. I palestinesi dei territori occupati – come osserva E. Said (dell’Università di New York) – forniscono in misura crescente la forza-lavoro per le imprese agricole ed edili israeliane, per la sem-plice ragione che sono costretti a lavorare in condizioni di bassi salari e garanzie sociali inesistenti (tali da essere rifiutate persino dagli ebrei russi di nuova immigrazione).
L’industria importa materie prime (il paese non ha petrolio, ma fosfati e potassio) ed esporta prodotti con alto valore aggiunto (diamanti, elettronica, armi, prodotti chimici). L’elemento decisivo che ha strutturato l’economia, la vita sociale e politica, la cultura, e, naturalmente, il settore difesa e armamenti è stato lo scon-tro ininterrotto con gli arabi e i palestinesi, ruolo affidato a Israele fin dalla sua fondazione dal potere impe-rialistico (con momenti di acutissima tensione e guerra: 1948, 1956, 1967, 1973, 1982, 1988-90 – cfr. crono-logia). Ciò ha acuito tutte le contraddizioni interne di questo Stato e ne ha originate di nuove. Un terzo del prodotto nazionale lordo è riservato agli armamenti e al “mantenimento dell’ordine” nei territori occupati. Per non ridurre drasticamente le spese per gli armamenti, il governo – soprattutto dopo la vittoria della destra, Likud, nel 1977 – si è impegnato a fronteggiare la crisi che colpiva l’economia israeliana, come tutte le eco-nomie occidentali, sulla strada delle restrizioni monetarie e delle ristrutturazioni che impongono austerità per i salariati e drastici tagli nei bilanci dei servizi pubblici, il tutto in un contesto di crescenti privatizzazioni [sulla base di un piano commissionato alla Boston Corporation] offerte anche a stranieri (purché ebrei). Solo così la disastrosa situazione economica, che aveva toccato un tasso di inflazione di quasi il 500% nel 1984, ha potuto parzialmente riprendersi (oggi l’aumento dei prezzi è “solo” del 20%). La qualità dell’istruzione peggiora, il sistema sanitario si trova sull’orlo del crollo, i trasporti sono disorganizzati; il potere d’acquisto continua a diminuire.
Nonostante ciò la crisi mondiale del settore bellico – a seguito della fine della cosiddetta guerra fredda, della distensione internazionale, e della conseguente presa di assunzione diretta, e non più delegata, dell’intero settore da parte Usa – colpisce alcuni comparti di rilievo, come le telecomunicazioni Tadiran (del gruppo Koor). Queste circostanze, unite alla ricordata “normalizzazione” internazionale nei confronti del Sud Africa [con cui recentemente Israele aveva impostato una collaborazione su missili nucleari, non gradita agli Usa], hanno creato una tensione e un contenzioso crescente con gli stessi americani. Il mancato accogli-mento della richiesta israeliana alla Ibm per ottenere un supercomputer per la tecnologia missilistica, così come la negazione da parte del comando supremo Usa di informazioni telematiche strategiche in occasione dell’ultima guerra del golfo, sono la conferma del deterioramento dei rapporti tra padroni americani e rappresentanti governativi israeliani. Non a caso la lobby sionista americana appoggia più il potere Usa che non il governo di Israele, come ha dato a vedere l’anno scorso in occasione della visita di Shamir in Usa.
Contraddizioni di classe ed etniche
In questo quadro generale di crisi economica e politica, la disoccupazione supera – secondo dati ufficiali – il 9%. Il Koor, il principale trust dell’organizzazione sindacale Histradut, licenzia migliaia di operai e vende le sue filiali per evitare il fallimento. (Ciò nonostante il governo israeliano punta con ogni mezzo ad incenti-vare l’immigrazione di ebrei sovietici). Oltre mezzo milione di israeliani vivono, secondo le statistiche, al di sotto della soglia di povertà (cfr. Gresh-Vidal). La linea di separazione tra persone agiate e quelle senza de-naro corrisponde largamente alla demarcazione tra ebrei occidentali (Ashkenazi) ed ebrei orientali (Sefarditi). Maggioritari nella popolazione israeliana dopo gli anni ‘50, gli ebrei originari dai paesi arabi accrescono – con i palestinesi che vivono nello Stato di Israele – la massa dei poveri, dei disoccupati, degli analfabeti e dei delinquenti. Contrariamente alle previsioni queste discriminazioni si riproducono, anche se attenuate, di ge-nerazione in generazione, con ripercussioni politiche che i dirigenti laburisti (di estrazione Ashkenazi), al po-tere dal 1948, non avevano previsto: per punirli di oltre un decennio di ingiustizie, gli ebrei orientali sono stati favorevoli al partito di destra Likud (le elezioni del novembre 1988 danno il 53% all’estrema destra e ai partiti religiosi). (cfr. Gresh-Vidal).
Abbiamo dunque una situazione in cui alle contraddizioni economico-sociali dello Stato di Israele (crisi economica, disoccupazione, polarizzazione di ricchezza e miseria) si tenta di rispondere con una classica ri-cetta di destra: scaricandole all’esterno, proponendo una politica coloniale di annessione di nuovi territori. La prospettiva, non più soltanto della destra estrema, ma del Likud stesso, è quella dell’annessione dei territori occupati dal 1967 di Cisgiordania e Gaza con relativa espulsione e deportazione delle popolazioni palestine-si. Al tempo stesso lo Stato israeliano diviene sempre più repressivo al suo interno non solo contro i palesti-nesi che lottano per l’autodeterminazione (oltre 1000 morti e decine di migliaia di feriti in tre anni di Intifa-da), ma anche contro quelle minoranze ebraiche che si oppongono alla politica del governo: Vanunu, inge-gnere atomico preso e imprigionato in cella di segregazione per aver “rivelato” che Israele produceva e im-magazzinava bombe atomiche; militanti pacifisti condannati per il “crimine” di dialogo con l’Olp; giornalisti preoccupati della verità sulla Cisgiordania e Gaza gettati in prigione e malmenati sotto l’accusa di “tradimen-to”; pubblicazioni e centri pacifisti imbavagliati.
La tendenza dello Stato israeliano è verso una crescente militarizzazione. L’esercito in senso ampio as-sorbe, come detto, circa un terzo del Pil, la metà della ricerca-sviluppo, la metà delle importazioni, ma pure una parte crescente delle esportazioni [si ricordi l’esempio del Sud Africa, e altri casi analoghi di triangola-zione]. Al primo posto nel bilancio, prima potenza economica (dopo il sindacato) e primo degli esportatori, l’esercito costituisce anche una grande potenza ideologica, la sua rete d’istruzione si avvantaggia del tempo straordinario di cui dispone per “formare” i giovani israeliani.
1917: LA QUESTIONE ISRAELO-PALESTINESE
dalla dichiarazione Balfour alla disfatta del movimento operaio arabo-ebraico
Arlene Clemesha
L’originale dell’articolo che segue [tre volte più lungo di questo sintetizzato redazionalmente], interessantissimo e ricco di in-formazioni, si trova (in brasiliano) qui appresso in appendice agli articoli in italiano.
Con la vittoria della rivoluzione d’ottobre 1917, il partito bolscevico lanciò un appello per la pace de-mocratica senza annessioni, basata sul diritto di autodeterminazione per tutti i popoli, smascherando la di-plomazia segreta dei paesi imperialisti i quali, attraverso essa, si spartivano le spoglie della I guerra mondia-le. Qualsiasi “pace generale” avrebbe dovuto fondarsi sul principio in base al quale non sarebbe stata tollera-ta nessuna unificazione violenta dei territori conquistati durante la guerra, con l’immediata evacuazione delle truppe dai territori occupati. Il 7 dicembre, il consiglio sovietico dei commissari del popolo pubblicò un do-cumento rivolto “a tutti i lavoratori musulmani della Russia e dei paesi dell’est”, nel quale chiamava persia-ni, turchi, arabi e indù a distruggere gli imperialisti, che usurpavano e schiavizzavano i loro paesi. Poco gior-ni dopo la presa di potere, il governo sovietico cominciò a rendere pubblici i trattati segreti della diplomazia mondiale, in particolare quelli ritrovati negli archivi del precedente governo zarista. Tra questi c’erano i piani degli “alleati” per la futura spartizione della Turchia asiatica e per la subordinazione della Palestina al con-trollo britannico. Più specificamente, “nella concezione dei bolscevichi, l’occupazione della Palestina era parte della strategia britannica mirante alla divisione e allo smembramento dell’Impero Ottomano, cui avreb-be fatto séguito la “distruzione della Russia rivoluzionaria””.
La risoluzione sulla “questione nazionale e coloniale”, approvata dal II congresso del Comintern, sottoli-neava, in merito agli stati e ai paesi più arretrati, dove predominavano le istituzioni feudali o patriarcali rura-li: 1. la necessità di “combattere i movimenti pan-islamici, pan-asiatici e simili, che cercano di utilizzare la lotta di emancipazione contro l’imperialismo europeo e americano per rafforzare il potere degli imperialisti turchi e giapponesi, della nobiltà, dei grandi proprietari terrieri, del clero, ecc.; 2. che i comunisti devono “assicurare l’indipendenza del movimento proletario, anche nella sua forma embrionale”; 3. la questione del sionismo “il quale, col pretesto di fondare uno stato ebraico in Palestina, dal momento che i lavoratori ebrei rappresentano una piccola minoranza, consegna di fatto i lavoratori arabi della Palestina allo sfruttamento in-glese”. La denuncia del sionismo nelle risoluzioni del II congresso rispecchia in gran parte l’intervento della Frumkina (delegata alla sinistra della lega ebraica), rivolto contro Cohn-Eber, rappresentante del gruppo sio-nista, il quale sosteneva “l’opportunità delle migrazioni e della colonizzazione di quel paese” (la Palestina) e le sue preferenze per le “forme economiche capitalistiche moderne” della borghesia ebraica rispetto alle “forme feudali” dei padroni arabi. La denuncia del sionismo fu ribadita da Mereshim, delegato della sezione ebraica del partito comunista russo.
Tre giorni prima che i soviet prendessero il potere in Russia, la Gran Bretagna pubblicò la dichiarazione Balfour [firmata a Londra il 2.11.1917 – cfr. la Contraddizione, no.24 – ndr] in appoggio al progetto sionista di insediamento di un “focolare nazionale” ebraico in Palestina. I suoi obiettivi erano: a. assicurare un punto d’appoggio vitale per i piani britannici di dominazione imperialistica postbellica nell’area strategica del me-dioriente; b. ottenere il sostegno degli ebrei nella guerra e sbarrare il passo all’avanzamento delle forze rivo-luzionarie contrarie alla guerra. La dichiarazione Balfour fu denunciata dai bolscevichi, poiché “”l’attribuzione della Palestina agli ebrei” era una sceneggiata dell’imperialismo britannico, il cui unico o-biettivo era di mascherare e giustificare la “soppressione dell’Impero Ottomano””, la qual cosa è diventata sempre più evidente se solo si ricordano le parole nientemeno che dello stesso lord Balfour, il quale affermò privatamente, durante una riunione del gabinetto di guerra alla fine di ottobre del 1917, che la Palestina “non era adeguata per offrire un “focolare” agli ebrei, né ad alcun altro popolo”. Il secondo obiettivo britannico fu ammesso da David Lloyd George in persona – primo ministro di Gran Bretagna al momento della dichiara-zione Balfour – il quale scrisse nelle sue memorie che “nel 1917 era già evidente la grande partecipazione degli ebrei russi alla preparazione di quella disintegrazione generale della società russa conosciuta in séguito come “rivoluzione”. Si riteneva quindi che se la Gran Bretagna avesse espresso il suo appoggio alla realizza-zione delle aspirazioni sioniste in Palestina, uno degli effetti sarebbe stato di attrarre gli ebrei russi a favore dell’Intesa”.
Da parte sionista, una delle principali argomentazioni di Theodor Herzl, fondatore dell’organizzazione sionista mondiale, nella sua costante ricerca dell’approvazione imperialistica, consisteva nel sostenere che l’opera sionista e la fondazione di uno stato ebraico in medioriente avrebbe spaccato il movimento per la ri-voluzione socialista. È anche risaputo che Chaim Weizman, dirigente della stessa organizzazione e primo presidente dello stato d’Israele, disse che “la fondazione di uno stato ebraico avrebbe ridotto l’influenza co-munista”, soprattutto in Europa ma probabilmente in tutto il pianeta. Se, da un lato, si può capire come la persecuzione e anche la “diaspora” degli ebrei nel mondo abbia potuto attirare molti intellettuali e lavoratori ebrei verso il programma internazionalista del comunismo, dall’altro, una chiara deformazione e pure una posizione semplicistica e ideologizzata fu dovuta alla propaganda anticomunista che additò il socialismo co-me “cospirazione ebraica”, avvalendosi delle origini ebraiche di Marx e alle posizioni assunte da molti ebrei nel movimento rivoluzionario, dall’Europa dell’est alla Russia. Nel 1920, Winston Churchill, allora ministro della guerra, denunciò Trotskij e i “suoi progetti per uno stato comunista mondiale sotto il dominio degli e-brei”, notando, allo stesso tempo, “la furia con cui Trotskij attaccò i sionisti in generale e il dr. Weizman in particolare”, e affermando: “la lotta tra gli ebrei sionisti e i bolscevichi è quasi una lotta per l’anima del po-polo ebraico” [Lenni Brenner, Zionism in the age of the dictators, Croom Helm, Londra 1984].
Senza sminuire le conseguenze della dichiarazione Balfour, un movimento che a volte sembrava accostar-si a obiettivi simili, ma allontanando gli ebrei dalla lotta rivoluzionaria, attratti dal sionismo, fu il parados-salmente cosiddetto “sionismo socialista” (si rammenti che gran parte della colonizzazione, e l’intero movi-mento kibutzim, fu realizzato dalla “sinistra sionista” con la promessa di creare una nazione ebraica socialista in Palestina). Senonché l’incentivo per la migrazione e la concentrazione degli ebrei in Palestina, nel conte-sto della persecuzione verso gli ebrei europei, spinse nella regione anche un numero non insignificante di e-brei rivoluzionari e non sionisti.
L’immigrazione ebraica in Palestina crebbe rapidamente. Il numero di ebrei in Palestina passò da 20.000 nel 1880 a 85.000 nel 1914, scendendo a 60.000 durante la I guerra mondiale, ma crescendo a un rit-mo accelerato a partire dal decennio 1920 e dall’incorporazione della “dichiarazione Balfour” nel documento della Lega delle nazioni che stabiliva il mandato britannico sulla Palestina. Le quote d’immigrazione ebraica furono fissate a 16.500 l’anno, e dalla fine della I guerra mondiale al 1931 fecero affluire in Palestina più di 117.000 immigranti ebrei nonostante un rallentamento dopo il 1927 a causa della crisi economica mondiale. Durante il mandato britannico, la grande maggioranza della forza-lavoro era araba. In molti casi gli arabi svolgevano il lavoro manuale più gravoso, dato che i lavoratori ebrei occupavano i posti più “alti” e meglio remunerati.
Il peso del settore feudale in Palestina può essere compreso nell’estensione della sua dominazione su una massa di contadini poveri. Oltre alla grande concentrazione di terre nelle loro mani (in Palestina la metà delle terre appartiene a solo 250 famiglie feudali), gli stessi signori feudali erano usurai ed esattori d’imposte nei confronti dei contadini. Sempre durante la prima metà del XX secolo il livello di vita dei contadini, ma anche quello dei lavoratori urbani, rimase estremamente basso. Regnavano la fame e le epidemie (malaria, tuberco-losi, tifo, ecc.). Perciò, mantenere una condizione così arretrata – riserva inesauribile di forza-lavoro e mate-rie prime – era interesse dell’imperialismo, e la maniera più immediata di raggiungere tale obiettivo consi-steva nell’appoggiarsi alla classe proprietaria feudale araba, il cui interesse era precisamente di mantenere la situazione data.
La borghesia commerciale e i banchieri erano direttamente collegati, da un lato, al modo di produzione feudale, dall’altro, alle imprese a capitale straniero e alle importazioni, ossia si identificava appieno con l’imperialismo. La borghesia industriale (una frazione minore della borghesia araba), sorta nella prima metà del XX secolo, pertanto in un periodo di declino dell’economia mondiale dominata dal capitale finanziario, dipendeva non solo dallo sfruttamento eccezionale della manodopera e delle materie prime, garantito dalla concomitanza di un sistema economico feudale locale e dall’influenza dell’imperialismo, ma anche dai pre-stiti di capitale straniero. La presenza della borghesia sionista in Palestina e il fatto che essa, e non la borghe-sia araba, occupasse la maggior parte delle posizioni demandate dal potere britannico alla borghesia colonia-le, ha aggravato la condizione della borghesia araba, senza tuttavia metterla in posizione di scontro o di op-posizione con l’imperialismo. Il censimento del 1939 mostra una borghesia industriale araba assai inferiore a quella sionista, in termini sia di investimenti sia di produttività.
Ma, in alcuni casi, capitava che arabi ed ebrei lavorassero fianco a fianco e allora organizzazione del la-voro e rivendicazioni unitarie erano inevitabili, nonostante che l’Histadrut [la confederazione generale dei lavoratori ebrei] tentasse di impedirle, sempre guardinga contro la nascita di sindacati arabi, soprattutto quel-li a guida comunista. Perciò la “sinistra sionista” si oppose all’unione dei lavoratori arabi ed ebrei. La città di Haifa (Palestina) presentava la maggiore concentrazione di operai industriali arabi di tutta l’area. C’era anche un polo di lavoratori ebrei sindacalizzati e militanti. I lavoratori arabi e i comunisti aumentarono la loro pres-sione affinché la confederazione rompesse definitivamente i legami con il sionismo, ma il risultato fu l’espulsione dei comunisti dall’Histadrut e la denuncia del partito comunista palestinese come “nemico del popolo ebraico”.
Nel 1933 era perciò già possibile notare una crescita dell’opposizione araba al colonialismo britannico. La rivolta del 1936, che cominciò spontaneamente nell’ottobre con un’ondata di scioperi e manifestazioni, face-va parte di una sollevazione più generale, che arrivava fino in Palestina, contro il colonialismo europeo. Le classi governanti arabe formarono un “alto comitato” per controllare la rivolta; lo sciopero generale fu smo-bilitato per timore, da parte degli alti circoli palestinesi e di altri paesi arabi, che potesse trasformarsi in una rivoluzione sociale. Tanto i sionisti quanto i nazionalisti arabi erano contrari alla lotta unitaria dei lavoratori, della quale incolpavano i comunisti.
La Gran Bretagna varò una commissione d’inchiesta [commissione Peel] per accertare le cause della ri-volta, e concluse i suoi lavori con una nota pubblicata il 7 luglio 1937, con cui raccomandava la divisione del paese col trasferimento della popolazione araba che viveva nelle zone che sarebbero dovute diventare uno stato ebraico. Il programma della commissione Peel fu ben accolto dai sionisti, ma respinto dagli arabi. La rivolta araba del 1936-39 è frequentemente descritta come “fanatismo religioso” e “xenofobia generalizzata”. In effetti, la religione svolse qui un ruolo molto minore che nel 1929. Le masse nelle strade non erano soltan-to contadini, ma giovani urbani [shebab] guidati dal “parito dell’indipendenza”, un nuovo gruppo nazionali-sta composto da arabi musulmani, cristiani ed ebrei delle città. Le principali richieste scaturite dalla rivolta (fine dell’immigrazione ebraica, proibizione della vendita di terre arabe agli ebrei e formazione di un “go-verno nazionale rappresentativo palestinese”) indirizzavano la lotta contro i colonialisti britannici e il sioni-smo.
Fu così che nel 1939 il partito comunista palestinese [Pcp] si divise, con una minoranza ebraica che si av-vicinava al sionismo, in quanto la linea ufficiale del partito diventava sempre più nazionalista araba. La se-zione ebraica non tardò a prendere la decisione di entrare nelle organizzazioni sioniste, quali il Mapai (il par-tito “sionista laburista” di Ben Gurion), i sindacati dell’Histadrut e anche l’esercito clandestino dell’Haganah. Essa ha motivato la propria adesione al sionismo in nome del “lavoro legale” in “organizza-zioni di massa” e come un “adattamento delle forme di lotta nel settore ebraico al livello di maturità politica dell’ischuv”. I “sionisti socialisti”, che fino a quel momento erano chiamati “socialfascisti”, furono riclassifi-cati come “frazione rivoluzionaria dei lavoratori e della gioventù” con cui si sarebbe potuto fare un “fronte contro la divisione”.
Considerando che neppure tutte le imprese a capitale straniero si riferivano a “concessioni” e che soprat-tutto si trattava di imprese appartenenti a “non ebrei” diversi dagli arabi, se ne trae la conclusione che “il ca-pitale straniero possedeva almeno i tre quarti del capitale investito nell’industria, il capitale ebraico un quin-to, e quello arabo appena il 2-3%, il che lo incitava a fare i più grandi sforzi per combattere la borghesia sio-nista onde diventare il principale agente dell’imperialismo. Se si guarda alla sua lotta contro l’imperialismo per ottenere alcune concessioni a nome proprio, è chiaro che il destino della borghesia araba è strettamente legato a quello dell’imperialismo” [Tony Cliff, The Middle East at the crossroads, New York. 1945]. Pertan-to, da queste analisi emerge che né la classe feudale né i due settori della borghesia nazionale araba possono rappresentare un polo di resistenza allo sfruttamento della Palestina da parte del capitale straniero.
L’importanza del medioriente per le potenze europee e per gli Usa, secondo lo stesso Cliff [cfr. op. cit.], è spiegabile con quattro fattori fondamentali tra loro interconnessi: – come rotta per altre aree (India, Australia, Cina, ecc.); – come fonte di materie prime; – come importante mercato per prodotti della manifattu-ra; e – come terreno per investimenti di capitale.
L’importanza del medioriente come rotta commerciale o semplice transito verso l’Asia si può agevolmen-te spiegare: attraverso il canale di Suez passava gran parte delle importazioni britanniche ed europee in gene-rale, di provenienza asiatica; le rotte aeree da Londra a Bombay, Singapore, Hong Kong e Australia, faceva-no scalo a Haifa; il progetto del kaiser tedesco di costruire la linea ferroviaria Berlino-Baghdad costituì una delle cause della I guerra mondiale. Con la sconfitta bellica della Germania, fu l’Inghilterra che costruì la re-te ferroviaria di interconnessione per consolidare il suo dominio, attraverso le linee Cairo-Haifa, Haifa-Beirut, Beirut-Tripoli, Haifa-Hedjaz e Haifa-Baghdad. Ma per capire l’importanza del medioriente come via di collegamento, basti ricordare che ciò costituì uno dei principali motivi di scontro tra le potenze europee nel corso del XIX secolo.
L’importanza del medioriente come fornitore di materie prime – petrolio innanzitutto, ma anche minerali di magnesio, bromo, nitrato di potassio, oltre al cotone egiziano – doveva ancora affermarsi in tutta la sua e-stensione. Ma il controllo della produzione esistente era già motivo di disputa tra le varie potenze. I paesi che uscirono vittoriosi dalla II guerra mondiale, Usa in testa, ma anche Russia, Inghilterra e Francia, rivolsero le proprie attenzioni al controllo del medioriente particolarmente per le sue riserve petrolifere. Tutti i calcoli si basavano solo su stime, ma si sapeva che le riserve di petrolio del medioriente erano enormi e praticamente intatte fino a quel momento. Nel 1943, il medioriente produceva appena il 5,7% del petrolio mondiale, gli Usa il 66,1%. Tra il 1948 e il 1972, la quota Usa dell’estrazione mondiale di petrolio scendeva al 22% (no-nostante che la sua produzione fosse quasi raddoppiata). La causa di ciò era dovuta a una straordinaria dislo-cazione in medioriente, la cui produzione passò da 1,1 a 18,2 mln barili al giorno.
Nel 1945 l’Inghilterra ancora controllava la maggior parte della produzione di petrolio in medioriente. Ma il cambiamento dei rapporti di forza imperialistici nella regione e l’aumento dell’estrazione in Arabia saudita (dove la principale partecipazione era nordamericana) posero in poco tempo gli Usa in vantaggio su Inghil-terra e Francia. Il governo e le imprese private Usa progettavano di moltiplicare le raffinerie e di costruire un oleodotto che collegasse Arabia saudita, Bahrein, Qātar e Kuwait al mar Mediterraneo (Haifa o Alessandria – il petrolio arabo era trasportato per nave attraverso il canale di Suez). Lo sfruttamento del petrolio mediorien-tale, specialmente iraniano, rientrava anche nei piani dell’Urss. La produzione interna di petrolio non soddi-sfaceva gli obiettivi stabiliti dai piani quinquennali. Quindi, la questione petrolifera non fu di secondaria im-portanza nei colloqui di pace che seguirono la II guerra mondiale, come osservò Harold Ickes, ministro degli interni di Roosevelt, che controllò la politica Usa del petrolio per oltre un decennio. Di fatto, dopo la II guer-ra mondiale, il medioriente si è trasformato in uno dei principali obiettivi della lotta interimperialistica.
Senonché il medioriente rappresentava anche una vasta area per gli investimenti di capitale. Durante la prima metà del XX secolo, i settori più importanti dell’economia mediorientale erano nelle mani dei capitali-sti stranieri. In particolare, dopo la I guerra mondiale, gli investimenti imperialistici erano sempre più diretti nella regione, dai prestiti agli stati agli investimenti diretti in ferrovie, generazione e distribuzione di energia, elettricità, acqua, banche e industria. In Palestina, il censimento industriale del 1939 rilevò che circa il 75% del capitale industriale del paese era capitale straniero. È dall’interrelazione tra questi fattori – l’importanza che avevano per Inghilterra, Usa, Urss e altri paesi europei, il controllo e la produzione di petrolio e di altre materie prime, delle vie di comunicazione e della produzione industriale – che comincia a sorgere il quadro della presenza imperialistica in medioriente, le alleanze con strati sociali locali e il peso che tale presenza e-sercita sulla popolazione, in particolare i lavoratori, rurali e urbani. Le classi al governo in medioriente erano composte da settori feudali e borghesia, divisa tra commerciale e bancaria, da un lato, e industriale, dall’altro.
Durante la II guerra è aumentata anche la polarizzazione sociale e il livello di sfruttamento dei lavoratori nelle industrie e nelle campagne. Alla fine della guerra, sui lavoratori non gravava soltanto l’eccezionale sfruttamento da parte delle industrie locali, ma anche la disoccupazione. Enormi masse di lavoratori persero le loro occupazioni con la fine delle ostilità belliche, che rendevano le imprese del medioriente fornitrici di tutto ciò che occorreva agli eserciti europei, determinando una situazione sociale esplosiva in tutta l’area. Sicché, venne a crearsi una forma di antagonismo tra le potenze europee e la borghesia industriale locale, che aveva la necessità di difendere le proprie posizioni acquisite durante la guerra, si approfondì ancora il solco tra borghesia industriale e lavoratori, senza dire di un timore di rivolta, attraverso il quale, in ultima istanza, gli interessi della borghesia locale rimanevano legati a quelli dell’imperialismo, che fosse o no britannico (il quale stava proprio allora perdendo la sua influenza a vantaggio degli Usa). Come si è detto, la maggior parte della classe dominante araba (proprietari feudali, borghesia compradora, commercianti e usurai) si identifi-cava pienamente con l’imperialismo.
La guerra del 1948 e il nuovo equilibrio di potere in medioriente non solo ha sviato le masse arabe dal-la lotta contro la dominazione delle potenze europee, spostandola verso quella contro il nuovo stato d’Israele, ma contribuì a esaurire le risorse e le riserve praticamente di tutti gli stati arabi mediorientali. Esaurendo le riserve dei paesi arabi e aumentando la loro dipendenza dalla potenze europee, la guerra in Palestina ha rap-presentato piuttosto un passo verso la “balcanizzazione” (ossia, frammentazione) del medioriente e ha de-terminato le condizioni per la soppressione del movimento operaio, creando così uno stato di tensione per-manente e di crescita dello chauvinismo. Una delle grandi illusioni dell’epoca sullo stato d’Israele era relati-va allo sviluppo della sua industria. Gli unici settori industriali che mostravano una qualche crescita, dovuta in gran parte alla produzione bellica, erano quelli metallurgici ed elettrici. L’agricoltura aveva una crescita maggiore del settore manifatturiero ma soffriva di carenza di manodopera, giacché pochi immigranti di re-cente data erano disposti a trasformarsi in agricoltori nei kibutzim (insediamenti cooperativi). Lo sviluppo dell’agricoltura, così come dell’esercito, dipendeva dal finanziamento esterno, proveniente principalmente dagli Usa.
Nonostante una riduzione forzata delle importazioni, provocata dalle autorità sioniste nel tentativo di di-minuire il disavanzo della bilancia commerciale, nel 1949 esse erano ancora cinque volte il valore esportato, con un saldo negativo di 400 mln di lire israeliane. Come conseguenza della tendenza all’autarchia, si verifi-cava un abbassamento del livello di vita delle masse. Se il piano economico del governo imponeva l’austerità, l’onere gravava sulle masse che, oltre ad affrontare la scarsità dei prodotti fondamentali, non smettevano di pagare – oltre alle tasse per l’Histadrut e per altre istituzioni sioniste (che assorbono circa il 10% del salario) – le imposte dirette e indirette (tariffe doganali altissime, ecc.) che costituiscono un sistema di tassazione multipla e discriminatoria. A es., se il corso dei cambi fosse stato pari a 250.000 per dollaro, gli importatori sarebbero stati obbligati a comprare dallo stato un dollaro per 333.000. Ma l’importatore sarebbe stato in grado di recuperare la differenza di prezzo, e lo stato si sarebbe così arricchito in una misura che, pur scritto a bilancio, avrebbe gravato e sarebbe uscito dalle tasche del consumatore. La maggior parte delle spe-se stanziate in bilancio riguardavano la burocrazia governativa e il corpo diplomatico sovradimensionato. Nel neonato stato d’Israele prevaleva così un sistema di imposte discriminatorio nei confronti dei lavoratori, un piano economico di austerità a sfavore delle masse e non della macchina governativa e delle istituzioni sioniste, un basso livello salariale reale, con scarsità di prodotti fondamentali, alto costo della vita (soprattut-to per alimentari e affitti), immigrazione superiore alla capacità di assorbimento (nel 1949 i 60.000 immigrati dei campi provvisori vivevano in condizioni molto difficili).
I dati economici disponibili nel 1948-49 (c’era scarsità di statistiche, che lo stato giustificava con “motivi di sicurezza”) mostravano una completa dipendenza del nuovo stato dall’imperialismo – al quale doveva la sua stessa esistenza – come dimostrano alcuni fondi (Magbioth) raccolti all’estero, principalmente negli Usa. La via d’uscita per Israele avrebbe rappresentato anche una soluzione per il medioriente nel suo complesso, indipendentemente dall’assetto politico economico. Il sionismo occupava una posizione particolare nella dominazione britannica della Palestina. Non solo appoggiava attivamente tale dominazione (nella misura in cui la sopravvivenza in medioriente dipendeva dal sostegno di una potenza mondiale), aiutando a reprimere la lotta di emancipazione nazionale araba, ma si configurava anche come appoggio passivo dietro il quale la potenza mandataria poteva nascondersi e mediante il quale poteva dirigere la rivolta delle masse arabe. In questo senso, esso costituiva un termine medio tra l’imperialismo e l’oppressione della popolazione araba. In diverse occasioni la Gran Bretagna trovò la maniera di difendere i propri interessi occultando la propria re-sponsabilità nelle azioni di espropriazione e oppressione delle masse, agendo sotto la copertura della “difesa degli interessi degli ebrei e del loro diritto a un focolare nazionale”. Tony Cliff ha denunciato che anche il “sionismo socialista” (come l’Histadrut) è entrato nel gioco del conflitto per i “favori” scambiati con l’imperialismo.
Il potenziale di lotta operaia unitaria arabo-ebraica crebbe enormemente durante la II guerra mon-diale. Per la prima volta nella storia della Palestina, la separazione sul lavoro cominciò a lasciar posto a un gran numero di arabi ed ebrei che lavoravano fianco a fianco. I lavoratori arabi ed ebrei delle ferrovie di Hai-fa fecero delle rivendicazioni unitarie nel 1940, e protestarono insieme nel dicembre 1942, con uno sciopero di tre giorni in tutte le fabbriche di Haifa, sfidando un divieto ufficiale per gli scioperi in settori essenziali dell’industria. Al termine della II guerra mondiale si verificò una “scalata” degli attentati terroristici sionisti contro il governo del mandato britannico in Palestina. Senza sminuire il significato degli attentati alla loro mera apparenza antimperialista e anti-britannica, la piena collaborazione di tutte le organizzazioni militari sioniste (Haganah, organizzazione militare nazionale Irgum [tra i cui dirigenti c’era il futuro primo ministro Begin – ndr] e Gruppo Stern [diretto da Shamir, anche lui futuro primo ministro – ndr]) era imprescindibile per la continuazione della dominazione imperialistica nella regione, l’incitamento all’odio tra le due comuni-tà, lo chauvinismo e i pogroms, ovverosia l’applicazione esaltata della politica del divide et impera.
Se durante il periodo di guerra la classe operaia crebbe in tutto il medioriente, a seguito dello sviluppo dell’industria per le forniture belliche e per il mercato locale (che interruppe il precedente flusso di importa-zioni), nell’immediato dopoguerra il potenziale di questa classe operaia divenne esplosivo, per la crescente minaccia di disoccupazione tra i lavoratori arabi ed ebrei, a causa della chiusura delle industrie degli arma-menti. Gli scioperi e le manifestazioni dei lavoratori dilagarono in tutto il medioriente. In Egitto, il delta del Nilo fu scosso da una sollevazione dirompente di lotte operaie in diversi settori – ferrovie, telefonia, ecc. Al Cairo, nel 1946, uno sciopero generale di operai e studenti impose il ritiro della Gran Bretagna dal paese. Sempre nel 1946, in Irak, ci fu un importante sciopero dei lavoratori petroliferi di Kirkuk; e nel 1948, prote-ste contro il governo fantoccio, che permetteva la permanenza di basi militari britanniche, sfociarono in una rivolta su vasta scala in tutto il paese. In Iran, nel maggio 1946, uno sciopero nel campo petrolifero da poco installato di Agha Pani fu seguìto da uno sciopero generale nei giacimenti della compagnia anglo-iraniana del petrolio. Ancora nel 1946, si svolsero altri scioperi nelle ferrovie.
Nel 1947, tanto i sionisti quanto i nazionalisti arabi si opposero all’allargamento degli scioperi: i primi perché non volevano correre il rischio di non ottenere dal governo britannico l’aumento della quota di immi-grazione; i secondi perché, seguendo l’orientamento del Mufti di Gerusalemme, si opponevano all’estensione della collaborazione tra lavoratori arabi ed ebrei. Anche l’esecutivo dell’Histadrut bloccò ogni iniziativa per-ché, secondo le parole di un suo funzionario, si “temeva uno sciopero di lavoratori arabi ed ebrei, uno sciope-ro che sarebbe stato antiebraico per la fermezza del suo carattere politico”. In altri termini, avrebbe costituito una minaccia per il sionismo. La lotta unitaria dei lavoratori arabi ed ebrei era una minaccia per i sionisti, e nella misura in cui cresceva la battaglia per la Palestina, gli chauvinisti inscenarono una provocazione con spargimento di sangue, per annegare la solidarietà della classe operaia in un mare di isteria nazionalista. Nel 1946-47 le forze militari ebraiche cominciarono a prepararsi per la divisione. Se da un lato la dirigenza sioni-sta si oppose energicamente all’organizzazione operaia unitaria arabo-ebrea, che vedevano come una minac-cia al proprio programma di “conquista del lavoro”, anche i nazionalisti borghesi arabi si sentivano minacciati dall’unità operaia tra le due comunità. Al pari dei gruppi della “sinistra sionista”, che già sostenevano una federazione di comunità nazionali arabe ed ebraiche, successivamente anche i comunisti cedettero, senza opposizione e senza restrizioni, alla divisione della Palestina e alla creazione dello stato d’Israele.
Dopo la votazione dell’Onu, nel novembre 1947, favorevole alla divisione, con l’appoggio dell’Urss, il Pcp cambiò nome [Eretz Israel (Makei), poi Maki], adottando inizialmente la designazione sionista per la Pa-lestina. Con questo voto a favore della divisione della Palestina, era attribuito agli ebrei il 55% del territorio, mentre essi rappresentavano appena un terzo della popolazione, che viveva principalmente nelle città, occu-pando solo il 6% della terra. La rivolta della popolazione araba fu generalizzata. Scoppiarono conflitti e ci fu uno sciopero generale arabo a Gerusalemme. Sul fronte opposto, l’Irgum scatenò una serie di attacchi di “rappresaglia” e un terrore indiscriminato contro la popolazione civile araba. Anche l’Haganah promosse “contrattacchi” mortali – anche se “non provocati” – contro, a es., la stazione degli autobus di Ramallah e il villaggio di Khisas in Galilea. Il 29 dicembre l’Irgum lanciò bombe sulla città vecchia di Gerusalemme. Nel-la mattina seguente, i terroristi dell’Irgum compirono un attentato, con bombe lanciate da un auto, contro centinaia di operai giornalieri arabi riuniti sotto il portone principale della raffineria di Haifa, nell’attesa di un lavoro, causando anche qui morti e feriti. Alcuni minuti dopo, lavoratori arabi infuriati invasero la raffine-ria e, insieme ad alcuni operai, cominciarono ad attaccare gli ebrei, provocando alcuni morti. L’agenzia e-braica definì l’attentato come un “atto di pazzia”, ma segretamente autorizzò rappresaglie per la morte degli ebrei. Il giorno seguente la forza militare dei laburisti “sionisti di sinistra” invase un villaggio vicino a Haifa, uccidendo a sangue freddo più di 60 civili, uomini, donne e bambini. Nell’aprile del 1948, l’Haganah lanciò l’“operazione forbice”, parte del “piano D(Dalet)” sionista, che puntava all’espulsione degli arabi dai distretti misti e perfino dai quartieri arabi di Haifa: la conquista sionista di Haifa fu completata tra il 21 e il 22 aprile, con l’espulsione di 50.000 arabi che ancora stavano in città.
Si può dire che la repressione dei partiti comunisti e la caccia ai suoi militanti fu un obiettivo condiviso da tutti i regimi del medioriente, non importa se arabi o sionisti. Gli uni e gli altri hanno fomentato l’odio tra le due comunità, in quasi tre decenni di dominio coloniale britannico. Per creare lo stato d’Israele fu necessario distruggere la solidarietà tra lavoratori arabi ed ebrei.
…………………………………………
scheda
CRONOLOGIA ESSENZIALE
La terra di Palestina è collocata in una sorta di ideale crocevia che collega tra loro tre continenti: Asia, Africa, Europa. Gli avi dei palestinesi erano: Amoriti, Cananei, Aramiti, Arabi.
3500 a.C. ondata migratoria di Semiti dalla penisola araba verso Egitto, Mesopotamia, Palestina
2500 a.C. migrazione cananea verso la Palestina
Dopo il 2000 a.C. nasce lo Stato cananeo di Palestina
1200 a.C. gli Ebrei guidati da Mosè, cacciati dall’Egitto, vanno ad est del mar Morto; sotto Giosuè con-quistano lo Stato cananeo.
1020 a.C. Saul fonda il regno ebraico in Palestina e a est del Giordano. Succedono Davide e Salomone. Il regno dura 100 anni, fino al 923 a.C. Si dividerà poi in regno di Israele e regno di Giudea
722 a.C. fine del regno di Israele per mano degli Assiri
586 a.C. i Babilonesi pongono fine al regno degli ebrei in Palestina.
538 a.C. invasione dei Persiani
331 a.C invasione di Alessandro Magno
64 a.C. invasione dei Romani
636 d.C. invasione araba della Palestina e arabizzazione del territorio
1099 occupazione di Gerusalemme da parte dei Crociati
1187 Saladino vince i Crociati e libera Gerusalemme e la maggior parte della Palestina
1517-1917 la Palestina è sotto il dominio dei Turchi Ottomani
1897 I Congresso del movimento sionista a Basilea
1898 Costituzione della Banca nazionale ebraica
1903 VI Congresso sionista: viene respinta qualsiasi altra soluzione alla questione ebraica che non sia quella della fondazione di uno Stato in Palestina
1917 partecipazione palestinese alla prima guerra mondiale a fianco delle forze dell’Intesa (Francia, In-ghilterra) contro i Turchi. La promessa inglese ai palestinesi è l’indipendenza che non venne mai concessa.
1917 – novembre – dichiarazione Balfour [vedi documento]
1918 Dopo la Rivoluzione d’Ottobre il governo sovietico divulga gli accordi segreti intervenuti (1916) tra Francia Inghilterra e Russia zarista per la spartizione del Medio Oriente; tali accordi prevedevano un’amministrazione britannica su Irak e Transgiordania, un’amministrazione francese sul Libano e un’amministrazione internazionale per la Palestina. Ciò indigna moltissimo gli Arabi che si sentono traditi.
1922 Il Consiglio della Società delle Nazioni sancisce il mandato britannico sulla Palestina [mandato in diritto internazionale è un istituto usato dopo la prima guerra mondiale, quando si trattò di decidere la sorte delle ex colonie tedesche e turche. Si assegnava a uno Stato mandatario il compito di reggere uno dei territori suddetti fino a che i suoi abitanti non fossero stati ritenuti in grado di autogovernarsi]
1929 sommosse arabe contro l’immigrazione ebraica e la dichiarazione Balfour: a Hebron la comunità e-braica viene sterminata e la sinagoga distrutta
1924-1931 L’immigrazione ebraica conosce un riflusso: su 100 immigrati 29 se ne vanno dopo pochi me-si; nel ‘27 il saldo è negativo: 3.000 arrivati e 5.000 partiti
1930 Un “libro bianco” di lord Passfield annuncia restrizioni all’immigrazione ebraica
1936 In aprile viene formato l’”Alto Comitato Arabo”, che proclama uno sciopero generale per protestare contro l’immigrazione ebraica. Altre sommosse si susseguono fino ad agosto. Tutti i capi palestinesi vengo-no esiliati dalla commissione d’inchiesta inviata dal governo britannico
1937 Nel suo rapporto questa commissione propone la spartizione della Palestina e la formazione di uno Stato ebraico che copra una superficie di 5.000 kmq
1938 Un altro “libro bianco inglese” comunica l’impossibilità di applicare la soluzione della spartizione
1939 Il governo britannico attraverso il “libro bianco” sostiene tra l’altro che:
– è nato un focolare nazionale ebraico
– è pericoloso ampliarlo ulteriormente contro la volontà degli Arabi
– si deve porre fine alle immigrazioni ebraiche e alla vendita di terreni e si deve dare amministrazione au-tonoma ai legittimi proprietari del paese entro i 5 anni.
L’agenzia ebraica rifiuta i principi del “libro bianco” e intraprende una lotta contro la politica britannica attraverso organizzazioni terroristiche e paramilitari
1939 Inizia la II guerra mondiale. L’Inghilterra rimanda tutte le decisioni sulla Palestina alla Società delle Nazioni
1940 Promulgata in febbraio una legge fondiaria che vieta agli immigranti l’acquisto di terre palestinesi. Come contromisura l’Agenzia ebraica organizza l’immigrazione illegale. Nel frattempo contro gli inglesi in Palestina viene scatenato il terrorismo sionista dell’Irgum zwai leumi (Organizzazione militare nazionale), tra i cui dirigenti vi è Menahem Begin; nasce il Lehi (Combattenti per la libertà di Israele), più noto come banda Stern (tra i cui responsabili vi è Shamir), e la Haganah, organizzazione paramilitare
1942 Conferenza dell’Organizzazione sionista mondiale a Baltimora; si chiede un’immigrazione illimita-ta, la costituzione di uno Stato ebraico su tutta la Palestina, la creazione di un esercito ebraico e l’annullamento del “Libro Bianco”
1945 La popolazione in Palestina è di circa 1.280.000 palestinesi e 554.000 ebrei immigrati
1946 La neocostituita commissione anglo-americana d’inchiesta presenta il suo rapporto. Si propone il ri-lascio di 100.000 certificati di immigrazione in Palestina per gli ebrei vittime del nazismo. Attentato della banda Stern contro l’albergo Re David a Gerusalemme, quartier generale dell’esercito britannico
1947 L’Onu decide la spartizione del paese (dal 1936 al 1947 vi sono stati diversi altri progetti di sparti-zione) in 3 zone: 2 Stati, uno ebraico e l’altro arabo e l’internazionalizzazione di Gerusalemme. Il piano pas-sa con 33 sì (tra cui Usa, Urss, Francia), 13 no e 10 astensioni (tra cui la Gran Bretagna). A dicembre, al Cai-ro, i capi di Stato arabi decidono di impegnarsi in una lotta armata contro la realizzazione del piano Onu. Il bilancio complessivo delle sollevazioni palestinesi sotto il mandato britannico (1917-1948) è pesante: 50.000 vittime.