La questione dei salari e della spesa sociale:

E’ possibile assegnare alla questione dei salari e della spesa sociale una valenza che vada al di là della pur sacrosanta difesa delle istanze di milioni di lavoratori e cittadini europei? E’ possibile cioè costruire attorno alle rivendicazioni sui salari e sul Welfare una vera e propria opzione strategica per gli anni a venire, una opzione fondata sull’obiettivo di imprimere una svolta dal basso agli orientamenti di politica economica europea? Ed esistono forze politiche capaci di fare propria questa opzione e portarla avanti con successo?
Secondo l’opinione dominante, a interrogativi del genere si può solo rispondere negativamente. Fin dall’entrata in vigore del Trattato di Maastricht siamo stati abituati a ritenere che l’assetto istituzionale dell’Unione rappresenti una sorta di fortino inespugnabile. Al pari della Matrix dei fratelli Wachowski, l’Europa di Maastricht viene cioè concepita come puro controllo: un controllo sulle pressioni sociali talmente efficace da stroncare sul nascere qualsiasi istanza redistributiva. Un simile convincimento, del resto, risulta basato su fatti ben precisi. Basterà ricordare il drastico ridimensionamento della spesa pubblica determinato dal Patto di Stabilità, e gli effetti dello stesso sulla domanda aggregata, sulla produzione, sull’occupazione, nonché sui servizi pubblici destinati alla classe lavoratrice. Si potrà inoltre rilevare che la Banca centrale europea ha finora reagito ad ogni minima aspettativa di crescita dei salari monetari minacciando azioni restrittive sui tassi d’interesse, al fine di tirare le redini all’economia e riportare il tasso di disoccupazione – e la connessa combattività dei sindacati – a un livello compatibile con l’obiettivo cardine della stabilità dei prezzi. Si può infine ricordare la Strategia Europea per la Occupazione, degnamente rappresentata in Italia dalla legge 30. Mentre il Patto e la Bce tendono al diretto abbattimento dei redditi reali dei lavoratori, l’azione condotta dalla Strategia è indiretta e di medio-lungo termine. Essa mira infatti a rendere sempre più precario il rapporto di lavoro e a localizzare la contrattazione lì dove i lavoratori sono più deboli.
Tutti questi meccanismi hanno finora operato in modo impeccabile, dando luogo in Europa a un imponente processo di restaurazione capitalistica. Eppure, se solo si riuscisse a generare una spinta sufficientemente prolungata sui salari e sulla spesa pubblica, quegli stessi meccanismi potrebbero rivelarsi molto più vulnerabili di quanto si pensi. Il punto chiave, in proposito, è che l’unificazione monetaria ha liberato i singoli paesi dalla minaccia di attacchi speculativi alle valute nazionali. Questa novità ha aperto un notevole spazio di manovra sia sul versante del deficit pubblico sia su quello del deficit commerciale. La sostituzione delle valute nazionali con l’euro ha infatti eliminato i rischi di cambio, rendendo così molto più agevole il reperimento dei finanziamenti necessari alla copertura di eventuali squilibri nei conti pubblici o nelle bilance con l’estero. Le maggiori possibilità di emissione di titoli pubblici all’estero permettono oggi ad ogni paese dell’Unione di espandere il disavanzo fino a livelli un tempo considerati proibitivi, ovvero tali da scatenare un’ondata di vendite della valuta nazionale. Inoltre, le attuali possibilità di indebitamento risultano rafforzate dal fatto che la crescita del deficit non implica più necessariamente un incremento dei tassi d’interesse nazionali, dal momento che l’eventuale maggiore offerta di titoli da parte di un singolo paese tenderebbe oggi a distribuirsi sull’intero mercato europeo. Infine, va ricordato che l’eliminazione delle valute nazionali ha costituito dei meccanismi di contenimento degli squilibri potenzialmente favorevoli al lavoro. Oggi infatti molte imprese non possono più rimediare all’incremento dei salari monetari tramite la crescita dei prezzi e la svalutazione. Il che significa che un aumento dei salari potrebbe più facilmente che in passato generare effetti distributivi reali, ossia sfociare in una corrispondente riduzione dei profitti.
Appare dunque evidente che l’unificazione monetaria, eliminando il rischio di attacchi speculativi, ha fortemente ridimensionato il potere di ricatto dei mercati finanziari sui singoli paesi. Ed è altrettanto chiaro che tale ridimensionamento ha reso il palinsesto di politica economica europea molto più vulnerabile ad una eventuale espansione dei salari e della spesa sociale. Di tutti questi punti deboli la tecnocrazia europea è sempre stata ben consapevole. Lo stesso Patto di stabilità è stato introdotto allo scopo di impedire che i singoli paesi sfruttassero le maggiori opportunità di indebitamento offerte dall’euro, mentre le frequenti esortazioni alla concertazione e alla moderazione retributiva derivano dalla consapevolezza che la moneta unica ha reso il capitale maggiormente esposto alle pressioni salariali.
I settori moderati delle sinistre politiche e sindacali hanno finora assecondato le indicazioni dei tecnocrati, al punto che la totale soggezione ai vincoli sui salari e sulla spesa pubblica sembra esser diventato il principio costituente del riformismo europeo. Questa scelta rende le sinistre moderate strutturalmente ostili alle rivendicazioni, e soprattutto alla possibilità di coordinare le spinte provenienti dal basso al fine di innescare una crisi nell’assetto istituzionale vigente. La crisi viene vista come uno spauracchio, laddove invece è evidente che da essa soltanto potrebbe derivare l’occasione per un concreto cambio di paradigma, un cambio tale da interrompere il processo di restaurazione capitalistica in atto.
Una incoraggiante eccezione a questo appiattimento tecnocratico ci sembra tuttora rappresentata da Rifondazione Comunista e dagli altri partiti che compongono la neonata Sinistra Europea. Queste formazioni politiche hanno fatto della questione dei salari e della spesa sociale un tema centrale delle loro campagne. Esse risultano pertanto meglio preparate di altre a sviluppare una coerente strategia politica, che veda nelle rivendicazioni sociali non più soltanto delle iniziative eticamente ineccepibili ma anche e soprattutto degli strumenti decisivi per cercare di fuoriuscire dalla gabbia di Maastricht. Indubbiamente, le concrete modalità di attuazione di una strategia così ambiziosa risultano molteplici, e a seconda delle contingenze politiche potranno esser perseguite sostenendo o meno le maggioranze di governo. Al tempo stesso, però, se davvero si volesse perseguire questa strategia non si dovrà mai prescindere da un’accurata opera di selezione dei mezzi tecnici che, anziché assecondare i vincoli dell’attuale palinsesto europeo, siano al contrario capaci di sfruttarne tutti i punti deboli.
A questo proposito resta a nostro avviso ancora molto lavoro da fare. Prendiamo ad esempio il progetto di legge avanzato da Rifondazione per introdurre un meccanismo di adeguamento dei salari all’inflazione effettiva. Al di là dell’esito parlamentare, quel progetto presentava il limite di basarsi sul concetto di “inflazione programmata”. Come abbiamo in più occasioni cercato di chiarire, tale istituto appare non solo teoricamente viziato da una logica di tipo “quantitativista”, ma soprattutto risulta incompatibile con qualsiasi tentativo di superamento dei limiti ai salari e al Welfare imposti dal Trattato dell’Unione. Pertanto, se adottato, esso entrerebbe in palese contraddizione con l’obiettivo di costruire una credibile opzione strategica attorno alle istanze provenienti dalla base. In definitiva, la strada per rimettere in crisi il palinsesto di Maastricht e la restaurazione capitalistica che ne è derivata esiste, e i soggetti politici in grado di percorrerla ci sono. Tuttavia si tratta di un percorso impervio, per il quale occorrerà tecnicamente attrezzarsi. L’auspicio è che dopo le elezioni maturi la seria volontà di rimboccarsi le maniche.