«La produttività finisce ai profitti»

Dietro questa perdita del potere d’acquisto c’è o no la ricerca della competitività a scapito del costo del lavoro? Il dato più interessante, a fianco alla declino delle retribuzioni reali degli impiegati e degli operai, riguarda l’arretramento di quadri, tecnici e dirigenti. Per quanto riguarda i salari in senso stretto, doveva essere abbastanza noto che dall’inizio degli anni novanta sono praticamente fermi. Il blocco della retribuzione delle fasce medio-alte contribuisce a rendere il quadro più categorico e più netto. Quando si sceglie la strada della competizione attraverso la compressione del lavoro dopo un certo periodo si fanno scoperte di questo genere. Certo, bisogna studiare il dato analitico. E verificare se c’è o meno una parallela diminuzione del monte delle retribuzioni dei dirigenti. E questo perché con i modelli organizzativi in atto vengono utilizzate un gran numero di aziende terze e quindi diminuisce il numero dei dirigenti per unità produttiva all’interno dell’azienda madre. Questa forte compressione dei salari, quale scenario economico lascia prefigurare? Lascia prefigurare una situazione molto cirtica perché non è che il passaggio da una crescita moderata basata sulla compressione del costo del lavoro a una fase sull’innnovazione del prodotto sia immediato. Ci vogliono anni. Non è vero che Francia e Germania stanno peggio di noi. Hanno una base molto più robusta della nostra. Tanto è vero che la Germania ha i salari più alti di Euorpa ed è anche il primo paese esportatore. Naturalmente, tutto questo discorso non tiene conto degli aumenti di produttività… Già, appunto, mi chiedo dove siano finiti gli aumenti di produttività. I salari sono fermi da quasi quindici anni. E la produttività, intesa come valore aggiunto per ora di lavoro, cresce comunque di un punto percentuale l’anno. C’è stato un aumeno del 15 per cento in quindici anni. Gli esiti di questa produttività sono andati ai profitti, tradotti poi in impieghi per la razionalizzazione del processo produttivo e non per l’innovazione del prodotto. Su questo c’è una netta differenza con gli altri paesi. In Francia, per esempio, c’è un dato che sembra paradossale: ci sono stati 315mila occupati in più, ma con un prodotto interno lordo sostanzialmente fermo. Come è possibile? Hanno semplicemente ridistribuito il monte ore lavoro in una base sociale più allargata. Le classi sociali sono sotto pressione. Le classi dirigenti, però, continuano a non voler leggere questa situazione. Le classi dirigenti sono in grave ritardo nella comprensione dei fenomeni della globalizzazione. Sono un po’ come i generali che ragionano sulle guerre precedenti per trarre indicazioni sul futuro. Ancora dieci anni fa, per non parlare degli anni ’70, c’erano migliaia di lavoratori in uno stesso posto di lavoro e quando parlavano di carovita la protesta veniva da sola. Oggi la produzione è talmente frammentata che la stessa capacità di dialogo e di confronto è diventata molto difficlie. E’ anche uno dei tanti problemi che sta davanti al sindacato. E il sindacato? Il sindacato è molto più avanti della classe politica, della stessa classe politica di sinistra. Nei loro discorsi c’è sempre tanta concretezza, cifre e modelli. Il fatto è che la sfida rappresentata da qusta rapidissima deconcentrazione del lavoro verso una fabbrica dispersa pone al sindacato problemi gravissimi. A questo va aggiunta la moltiplicazione delle tipologie dei contratti di lavoro. Dietro a questo modello deconcentrazionista c’è una precisa progettualità e intenzionalità. Resta da vedere se non sia arrivato il momento in cui gli effetti non si ribaltano, attraverso un forte aumento dei costi, su chi li ha voluti procurare.