Borse in recupero? Ripresina americana, lievitazione europea? Su quello che sta succedendo ai mercati finanziari in questi giorni, tra cadute vertiginose e volate sospette, abbiamo intervistato Elvio Dal Bosco, esperto di finanza internazionale. Ieri i titoli della vecchia e della nuova economia hanno ripreso respiro, dopo giorni di panico. Che cosa significa? Non significa niente nel breve periodo. Anche quando è in corso una tendenza delle Borse a salire ci sono delle pause di riflessione, oppure succede che gli operatori professionali decidono di fare “vendite di realizzo”. Bisogna invece guardare al trend: a quello che succede sul lungo periodo. Una volta la televisione tedesca intervistò un certo Kostolany – un grande speculatore alla Soros, per intenderci – e gli chiese come mai la Borsa andasse su e giù. Lui rispose che poteva capitare che ci fossero più idioti che azioni, e viceversa. Fine della “bolla speculativa”, allora, e avvio della fase recessiva? L’economia americana è in recessione. Mentre nei primi due trimestri del 2000 il Pil era cresciuto a valori costanti in media del 5,5%, nell’ultimo trimestre del 2000 e nel primo del 2001 è diminuito dell’1, 5%. E mentre nella prima metà dell’anno scorso i beni durevoli erano aumentati a un tasso del 10%, nell’ultimo trimestre sono diminuiti del 3%; gli investimenti fissi privati che erano del 13% nello stesso periodo, sono calati all’1,5 nel quarto trimestre del 2000. E nel primo di quest’anno la situazione è ulteriormente peggiorata. Sono tutti indicatori che dimostrano che siamo in una fase di recessione, e ho qualche dubbio che la situazione si riprenderà nel secondo semestre, perché quella è un’economia che continua a indebitarsi con l’estero. I dollari sono la moneta di riserva, quindi la gente detiene dollari visto che dietro l’euro non c’è niente. Questo consente agli Usa di potersi indebitare, anche se non lo potranno fare all’infinito. Marcello De Cecco sull’ultimo numero di “Affari e finanza” sostiene che quella crescita ha portato con sé un indebitamento spaventoso degli Stati Uniti, che hanno continuato a consumare facendo pagare ai paesi esportatori il costo della loro ricchezza. Gli Stati Uniti hanno un disavanzo di bilancio incredibile per un’economia che dovrebbe essere forte. Con un saldo deficitario fra importazioni ed esportazioni persino in alcuni comparti di alta tecnologia come i computer, che gli americani importano ormai da Taywan e da altri paesi più di quanti ne esportino. Non importa se sono stati loro a inventarli. Oggi sono costretti a importarne e si reggono sul fatto che sono gli altri paesi ad anticipare i soldi con i quali alimentano la loro ricchezza. Quando c’è un disavanzo di beni e servizi con l’estero vuol dire che quel paese e quel popolo “vivono al di sopra delle loro possibilità”, come si è detto a lungo anche per l’Italia. Un altro commentatore ha affermato che «la globalizzazione non fa bene a tutti: fa diventare più poveri i paesi poveri». L’autore sostiene che il rapporto tra il Pil di questi ultimi con il Pil dei paesi più ricchi era di 1/31 nel 1960 e di 1/74 nel 1997. Quanto sono connesse le due cose? Le due cose sono legate in un senso specifico: è opinione comune, anche da parte di economisti non di sinistra, che la globalizzazione aumenti le disuguaglianze all’interno dei singoli paesi e tra questi e i paesi in via di sviluppo. Ma la verità è che si scarica sulla globalizzazione quello che è il portato dell’ideologia neoliberista sottostante. I neoliberisti parlano di globalizzazione ma di fatto ci impongono il neoliberismo. Loro usano la globalizzazione come feticcio, per imporre il contenimento dei salari a favore dei profitti e soprattutto delle rendite. Il tasso di accumulazione negli anni novanta è stato molto basso e si sono sviluppate le attività finanziarie; non con un incremento negli investimenti o nei salari, rispetto al Pil, ma nelle rendite. In pratica siamo ritornati all’Ottocento. Altro che terzo millennio.
Gemma Contin