L’evoluzione delle bilance dei pagamenti dei Paesi Ue porta a una conclusione difficilmente controvertibile: si è in presenza della riproposizione delle dinamiche perverse dei rapporti centro-periferie che il pensiero marxista ha efficacemente indagato. Emiliano Brancaccio e Riccardo Realfonzo hanno recentemente riproposto e riformulato i termini del problema, rilevando che apertura dei mercati e soppressione delle politiche economiche nazionali hanno favorito la concentrazione dei capitali europei verso le zone centrali del continente, determinando il conseguente impoverimento delle ‘periferie d’Europa’. La diagnosi può essere ulteriormente articolata, in considerazione del segno che politiche monetarie e fiscali hanno assunto nei tempi più recenti in sede Ue. La Bce – in nome del perseguimento della stabilità dei prezzi – da tempo pratica politiche monetarie restrittive. L’aumento dei tassi di interesse monetari, ben oltre i tassi di crescita delle economie europee, ha generato crescenti difficoltà di approvvigionamento di credito da parte delle imprese più deboli, più piccole, normalmente operanti in zone periferiche del continente. Ma sono queste imprese a essere maggiormente dipendenti dal sistema bancario e la crescita dei tassi di interesse – accrescendo le loro passività – ne ha ridotto i margini di profitto, accentuando il differenziale rispetto a quelli delle imprese più forti, normalmente operanti nelle aree centrali del continente. Intenzionalmente o meno, la politica monetaria di questi ultimi anni ha contribuito a determinare l’accentuarsi delle disuguaglianze su scala continentale.
C’è di più. In tutti i Paesi europei, Italia inclusa, in nome del rispetto dei vincoli di Maastricht, le politiche fiscali degli anni recenti sono state di segno restrittivo: compressione della spesa pubblica e aumento dell’imposizione fiscale. Il conseguente calo della domanda ha accentuato la competizione fra imprese per accaparrarsi quote di mercato via via ridotte. Ne è seguito, anche per questa via, l’accentuarsi dei divari – in primis sui margini di profitto – fra aree centrali e aree periferiche d’Europa.
In uno scenario di questo tipo, nel quale non sembra esserci spazio per indirizzi di politica economica alternativi a quello liberista, la possibilità di tenuta dell’Unione è affidata al solo strumento della “flessibilità” del lavoro. La sopravvivenza delle imprese periferiche, e delle economie periferiche, dipende dalla loro capacità di ridurre i salari e utilizzare la forza lavoro con vincoli giuridici minimali. Da cui: le economie del centro crescono grazie all’utilizzo di tecnologie avanzate e, così facendo, agevolano la crescente concentrazione di capitali; le economie periferiche, lasciate fuori da tali processi, si riproducono grazie all’uso intensivo di lavoro, con salari decrescenti e tutele decrescenti.
L’euromeridionalismo invocato da Brancaccio e Realfonzo fa leva innanzitutto sul ricompattamento politico del lavoro su scala europea. L’ipotesi non è da escludere sebbene il successo culturale e politico delle destre estreme negli ultimi anni, soprattutto presso i lavoratori dipendenti e le fasce sociali più deboli, lasci intravedere inquietanti sbocchi alternativi.
Proprio la plausibilità di simili derive rende urgente, anche da parte dei gruppi sociali e d’interesse non immediatamente riconducibili al lavoro subordinato, un ripensamento degli attuali assetti politico-economici. Occorre ripensare le politiche monetarie e fiscali in sede europea che, come qui suggerito, sono all’origine dei processi di marginalizzazione delle periferie. In questa prospettiva, è semmai un’azione contestuale sulla domanda, mediante manovre fiscali e monetarie espansive, e sull’offerta, mediante la promozione di politiche che sollecitino il salto tecnologico, a poter disattivare il circolo vizioso dell’Europa a più velocità, salvaguardandone la tenuta istituzionale.
E’ anche di questi temi che si parlerà a Napoli nel Convegno Fiom del 4-5 aprile.