L’intuizione che è alla base della ricerca ormai «storica» che Gabriele Basilico ha svolto sulla città contemporanea si può sintetizzare nella scelta di compiere il percorso inverso rispetto a quello intrapreso da Mario Sironi nei suoi celebri quadri sulla periferia. Partendo dai sobborghi industriali della capitale lombarda, il grande artista aveva costruito un avvincente narrazione pittorica nella quale un’assorta dimensione metafisica era attraversata da elementi futuristi. I suoi paesaggi urbani si ponevano come un introverso controcampo rispetto agli entusiasmi avanguardistici per la città moderna, esaltata ad esempio da Umberto Boccioni nella sua impetuosa crescita, paesaggi di cui rivelavano i lati indeterminati e provvisori nonché gli aspetti oscuri e desolati. Passando definitivamente dal linguaggio architettonico a quello fotografico Gabriele Basilico aveva assunto trent’anni fa lo stupefatto silenzio sironiano come proprio ambito poetico, nell’intenzione di riportarlo a quella realtà da cui esso era sorto, rovesciando in questo modo la direzione dell’osservazione, come in un Anello di Moebius temporale e tematico. Le sue fotografie di fabbriche silenziose colte in un’atmosfera immobile, quasi sottratta al tempo, fotografie nelle quali si avverte non solo la dichiarata influenza di Bernd e Hilla Becher, ma soprattutto quella del primo Aldo Rossi, riconducevano la metafisica e il futurismo alla loro «sostanza materiale», al loro concreto scaturire dal corpo vivo della città. Da quelle prime prove lo scavo sistematico effettuato da Gabriele Basilico sul paesaggio urbano gli ha permesso di ampliare progressivamente il suo orizzonte teorico ed estetico consentendogli di incorporare frammenti di «nuova oggettività», memorie del mondo hopperiano, echi della pittura iperrealista. Il suo sguardo nel corso degli anni è diventato, poi, ancora più determinato, riuscendo ad essere nello stesso tempo analitico e sintetico. Al contempo egli è riuscito a creare un singolare effetto di sdoppiamento. Le sue «vedute urbane», veri e propri «ritratti di città», si presentano come accurate documentazioni di situazioni urbane reali nel momento stesso in cui questi scorci prospettici di edifici e di spazi pubblici subiscono una sorta di «idealizzazione crudele». Tale scarto tra la verità delle cose e la verità dell’arte, posto sotto il segno di una ispirata «teatralizzazione» del paesaggio urbano, capace di determinare in esso un forte clima d’attesa, sposta le città di Gabriele Basilico nei territori di un immaginario acido e scabro, intriso di una umanistica pietas nei confronti di un anonimato metropolitano accettato come una condizione inevitabile della modernità. Cancellazione virtuale dell’individuo dalla città, l’anonimato è il luogo di un isolamento della coscienza che le mute scenografiche fatte di strade e di palazzi, di muri e di infrastrutture, di terrain vague e di residui di natura incastonati nell’edificato restituiscono con partecipazione e insieme con disincanto.
Scattered City (Baldini Castoldi Dalai editore, pp 207, 55 euro), il cui titolo esibisce tre metafore concatenate, contenute una nell’altra come in un gioco di scatole cinesi, presenta 161 fotografie inedite che nel loro scorrere costituiscono una sorta di emozionante film sulla città contemporanea. Immagini di Istanbul, Buenos Aires, Reggio Calabria, Barcellona, tanto per citare solo qualcuna delle molte città interrogate dall’obbiettivo di Gabriele Basilico, si inseguono suggerendo suggestivi confronti, come a richiamarsi l’una con l’altra in una progressione enigmatica ma inevitabile. L’ipotesi avanzata da Rem Koolhaas, secondo la quale quella contemporanea è una «città generica», viene autorevolmente smentita dalla unicità di ciascuna «veduta», portatrice di un’inconfondibile identità urbana. Ogni città esprime infatti una sua riconoscibilità anche se essa condivide con altri insediamenti le medesime matrici strutturali. In un legame unico con il proprio sito ogni città cresce attorno al suo genius loci con modalità che si ripetono simili a se stesse epoca dopo epoca. Il libro è introdotto da un dialogo tra Gabriele Basilico, Stefano Boeri, Yona Friedman, un architetto noto internazionalmente per le sue proposte urbane degli anni sessanta, che prefiguravano un’aerea città del futuro costruita sopra quella esistente, e il critico Hans Ulrich Obrist. Nello scambio di opinioni tra i quattro interlocutori l’idea di fotografia sembra passare all’interno di un prisma di cristallo scomponendosi in varie concezioni, anche opposte tra di loro. Concezioni che l’autore del libro tende via via a ricomporre, anche se con qualche difficoltà, soprattutto nei confronti delle eccentriche considerazioni di Yona Friedman. Sfogliando le pagine del volume si comprende chiaramente come la fotografia non riproduce tanto la realtà, quanto la costruisce attraverso un plusvalore rappresentativo definito da una precisa intenzionalità concettuale e figurativa. In altre parole la realtà non esiste fino a quando non viene raccontata, acquisendo in una narrazione una necessità, una finalità e un carattere di totalità, qualità che di per sé essa non possiede.
Entrando più in profondità nella poetica di Gabriele Basilico, si può osservare come il punto di vista che egli predilige sia sempre «esterno» rispetto a ciò che sta fotografando, come se il suo fosse un occhio costituzionalmente «straniante». Amplificato dal fatto che tale punto di vista è di solito collocato a una quota elevata, escludendo cosi la visione ad altezza d’uomo, questo sguardo conquista una sua sincera astrattezza come se la città fosse sezionata a un livello intermedio tra il suolo e cielo, un piano concettuale sul quale si addensa, come in una intricata scrittura, la molteplicità dei segni urbani. Nelle opere di Gabriele Basilico la luce costituisce un fatto essenziale. Ferma e smaltata essa delinea con estrema precisione, in un bianco e nero di esemplare nitidezza, ogni insieme e ogni dettaglio mai diventando, però, decorativamente calligrafica o meramente illustrativa, ma affermandosi come un’entità «ontologica» in grado di far emergere le forme urbane da una loro potenziale indistinzione. Come irradiata dall’interno delle cose la luce «nomina» tutte le parti della città riconsegnandole una per una all’unità alla quale appartengono e dalla quale traggono il loro senso. Inquadrate con una magica intelligenza del ruolo strategico del bordo le immagini presidiano il campo grafico attivandolo in ogni sua parte. Vere e proprie manifestazioni di una «archeologia del nuovo», colto nelle sue complesse stratificazioni e nelle sue multiformi apparenze, le fotografie di Scattered City mostrano la misteriosa «antichità» della città moderna, evidenziando il paradosso di un secolo che voleva proiettarsi in un futuro continuo mentre non ha fatto altro che ricreare un passato interminabile.