La paura soffia nel vento

In questa storia è onesto vendere due notizie al prezzo di una, anche se sarà evidente che non potranno essere vere tutte e due: è l’unico modo per entrare nella nebulosa dell’uranio impoverito che continua a uccidere silenziosamente i reduci dalla ultime guerre americane e della Nato così come i civili nelle zone colpite, che fa nascere mostri raccapriccianti come extraterrestri, che sotto forma di pulviscolo bussa in Europa a esigere il suo prezzo di morte. E’ l’unico modo per entrare in una nebulosa dove legioni di siti web e studiosi lunatici lanciano allarmi ingiustificati. Perché il Dipartimento di Stato, la Nato, l’Onu e l’Oms hanno prodotto i loro rapporti: non c’è nessun pericolo, non esiste nessuna sindrome del Golfo, a malapena esiste l’uranio impoverito, usato in alcuni tipi di bombe, nei proiettili anticarro, nelle barre stabilizzatrici dei missili Tomahawk.
La notizia è vecchia, orribilmente vecchia e proprio per questo nuova: perdura irrisolta, orribile e scandalosa, senza fretta come si conviene a un metallo che cede la sua radioattività nel giro di miliardi anni. «Quando tornai a Bassora – racconta Robert Fisk dell’Independent – trovai molta gente malata di cancro. Nascevano bambini senza braccia, senza naso, senza occhi. I neonati soffrivano di emorragie interne o sviluppavano grotteschi tumori». Il reportage dall’Iraq è del gennaio 2001, Bush padre aveva appena fatto la sua parte, doveva ancora passare il timone al figlio per la seconda guerra del Golfo. Roba vecchia. Non ci sono sufficienti dati statistici dicono tutt’ora i ministeri della guerra, cinque anni dopo. E siccome la vita continua, L’UsArmy ha ordinato 4 mesi fa a un’azienda della West Virginia 38 milioni di dollari di munizioni all’uranio impoverito, portando l’ordine totale nell’anno fiscale 2006 a 77 milioni.
Ma perché l’uranio impoverito? Perché nella civiltà del mercato la sua coppia di «E» mette KO tutte le obiezioni come il micidiale «uno-due» di un Tyson: economico&efficace. Tratto per lo più dalla barre usate come combustibile nelle turbine nucleari perde durante l’estrazione una parte di radioattività, è un sottoprodotto, una materia comparativamente poco costosa. Le sue proprietà fisiche conferiscono ai proiettili una straordinaria capacità di penetrazione: perfora la corazza di un tank come il burro e nel tragitto si frammenta e s’incendia facendo esplodere munizioni e carburante. La rivista militare «Jane’s» spiega che dentro un carro colpito «si sviluppa la temperatura di 10 mila gradi centigradi» (altre stime dicono da 3 a 6 mila). La sua notevole densità lo rende poi adatto a impieghi civili. E’ usato ad esempio sui Boeing 747 e nel telaio degli yacht. Si trova negli arsenali di Gran Bretagna, Stati Uniti, Francia, Russia, Grecia, Turchia, Israele, Arabia Saudita, Bahrein, Egitto, Kuwait, Pakistan, Thailandia, Iraq, Taiwan e Italia. Nonostante il suo tasso di radioattività sia basso, il metallo è pericoloso. Ma la minaccia maggiore è dovuta alle micropolveri che si generano nell’impatto del proiettile, un pulviscolo formato di particelle metalliche volatili, più piccole di un batterio.
L’esercito italiano ha avuto la sua sindrome dei Balcani con un numero insolitamente alto di soldati che si ammalavano di linfoma di Hodgkin. La commissione parlamentare che doveva indagare cominciò con una serie di svarioni statistici che in un primo tempo portò alla conclusione che il numero dei malati era nella media e dunque il caso non esisteva. Nel maggio dello scorso anno il ministro della Difesa Martino ha assicurato in parlamento che l’uso del metallo radioattivo non comporta alcun danno per la salute. Documenti di servizio della Kfor (la forza multinazionale in Bosnia di cui faceva parte anhe l’Italia) del 1999 prescrivono l’uso di protezioni se si opera «entro 500 metri» da un mezzo colpito da proiettili all’uranio, per non correre rischi mortali. Come l’innocuità del metallo sostenuta dal ministero e queste norme concordino, è un mistero disperante.
Da noi le misure di sicurezza furono comunque adottate con inspiegabile ritardo. Dice Falco Accame, ex parlamentare, presidente dell’Associazione delle vittime militari (Anavafaf) che da anni conduce una tenace battaglia perché i famigliari dei morti e i malati siano risarciti: «Il rischio era stato comunicato dalla Nato all’Italia fin dal 1994 ma il nostro esercito adottò norme di prevenzione soltanto a fine ’99. I soldati americani si proteggevano già con le tute in Somalia, nel 1993, mentre i nostri giravano coi calzoni corti». Per raccontare anni di trascuratezze, cinismo e miopia, Accame ha appena dato alle stampe un libro intervista a cura di Giulia di Pietro: «Uranio impoverito: la verità», (Edizioni Malatempora).
Il medico tedesco Siegwart-Horst Günther e Tedd Weyman dell’associazione canadese Umrc (Uraniuam Medical Research Center) hanno viaggiato in Iraq subito dopo l’attacco Usa «Shock and Awe», nel 2003: dal loro pellegrinaggio nell’orrore è uscito nel 2005 il film «Il dottore, l’Uranio impoverito e i bambini morenti» (si trova su traprockpeace.org). Mentre Weyman registrava livelli insolitamente alti di isotopi radioattivi artificiali (dunque non di origine naturale), Guenther osservava all’ospedale di Bassora un tasso di tumori dieci volte superiori alla norma e casi di deformità congenita venti volte più alta. Le persone impressionabili farebbero bene a non vedere le foto di quei bambini che girano sul web: un’umanità sfigurata, prigioniera di una materia impazzita, figure atroci di un bestiario insensato. Sul sito dell’Organizzazione mondiale della Sanità si dice che «nessun effetto sulla riproduzione e sullo sviluppo è stato segnalato negli umani». La relazione è del 2003.
Uno studio del 2005 pubblicato sulla rivista scientifica online «Enviromental Health», condotto da Rita Hindin dell’Università del Massachusetts conclude che «studi sugli animali supportano che l’uranio impoverito sia teratogeno» (provochi cioè deformità nei nascituri), tuttavia come ciò accada non è ancora chiaro. Diane Stearns, biochimica dell’Università dell’Arizona Settentrionale in uno studio pubblicato quest’anno sulla rivista «Mutagenesis and Molecular Carcinogenesis» ha concluso che l’uranio danneggia il Dna a prescindere dalla sua radioattività: il metallo si lega al Dna e la cellula prende a mutare provocando errori a valanga nella produzione delle proteine. Questo è importante perché quasi tutti i discorsi in difesa dell’innocuità dell’uranio impoverito prendono in considerazione l’aspetto radioattivo soltanto. D’altra parte lo scienziato britannico Keith Baverstock, esperto di protezione dalle radiazioni lo aveva già detto. In una relazione all’Europarlamento lo scorso anno, Bavenstock ha spiegato che «le particelle inalate di ossido di uranio impoverito possono penetrare a fondo nei polmoni provocando non solo un rischio di intossicazione da radiazione ma anche una tossicità chimica a livello genetico».
E’ come il confondersi di due canzoni di Bob Dylan nella testa di un folle: la dura pioggia (it’s a hard rain) che negli Anni ’60 si riferiva alle radiazioni del fungo nucleare, soffia oggi nel vento, (blowing in the wind). A farsi convincere infatti l’incubo diventa sempre più spaventoso. Lo scorso febbraio il domenicale del Times ha raccontato che due scienziati inglesi Chris Busby and Saoirse Morgan hanno rivelato come subito dopo l’attacco «Schock and Awe» nel Golfo, la quantità di uranio nell’aria intorno a Londra sia quadruplicata. Secondo loro significa che un potenziale assassino, l’ossido di uranio impoverito, è volato dall’Iraq ai filtri dell’impianto atomico di Aldermaston nel Berkshire. «Questi dati dimostrano – ha detto Busby – che invece di restare vicino all’obiettivo colpito, le armi all’uranio impoverito contaminano sia la popolazione locale che quelle lontano centinaia di migliaia di chilometri». Il ministero della Difesa britannico ha subito liquidato come «impraticabile» l’ipotesi.
Gli indizi si moltiplicano ogni giorno più schiaccianti ma il serial killer non è ancora incastrato, gli innocentisti sono molti, potenti e dispongono di qualche innegabile argomento: certo il principio di precauzione dovrebbe sconsigliare l’uso dell’uranio impoverito finché non sia stata fatta chiarezza. Ma tutto questo suona ridicolmente astratto alle orecchie del Moloch industrial-militare. Dopotutto la morte fa parte del suo business.