La paura delle imprese di investire nell’innovazione

L’innovazione può ancora rappresentare la classica bacchetta magica per uscire dalla crisi? E, soprattutto, chi sono i soggetti sociali che devono “rinnovarsi”? La domanda, dopo la sbornia di precarietà, flessibilità e privatizzazioni che ha attraversato a occhio e croce gli ultimi dieci anni l’Italia, è più che opportuna. Toccherà ancora ai lavoratori e ai giovani precari dover accettare altre dosi di “modernizzazione”? E oggi che la spina dorsale della società italiana, il cosiddetto ceto medio, è stata assottigliata dalla crisi, chi assolverà al compito di motore della ripresa? I dati, che sir Anthony Atkinson cita, parlano di una Italia, e di un mondo occidentale, il cui il primo effetto della globalizzazione è la forte riduzione dei redditi. Nel nostro paese, come negli Usa o in Uk, un quarto dei più diseredati hanno un lavoro salariato. Questo, mentre i ceti più ricchi, sono parole sue, hanno sempre di più; e la mobilità sociale che agisce ormai solo verso il basso.
Al “festival economia” di Trento la parola più usata, ieri, è stata appunto “innovazione”, anche se nella forma meno convincente dello slogan: “innovazione, innovazione, innovazione”. Innocenzo Cipolletta che vorrebbe i giovani venticinque-trentenni «fuori di casa», «perché solo così avranno qualche probabilità in più di farcela», lo ripete fino allo sfinimento. Anzi, per fare più presa sulla platea, affollatissima, usa un’altra frase ad effetto, “l’innovazione è sovversiva”. Linda Lanzillotta, neoministro degli Affari regionali, che gli ricorda le fortune de “l’immaginazione al potere”, preferisce uno schema più dialettico e problematico in cui l’innovazione risulta dal gioco «tra spinta politica e tessuto culturale». Anche per lei, comunque, l’innovazione è l’unica strada da percorrere se vogliamo rimettere in moto la crescita, purché ci sia «la valorizzazione della responsabilità attraverso il cambiamento». L’unica che azzarda un bilancio di questi anni è Marigia Maulucci, segretaria nazionale della Cgil. «Noi c’eravamo riusciti a convincere i lavoratori che la modernizzazione era un passaggio positivo. Poi ci sono state le privatizzazioni. E oggi dobbiamo constatare che l’esito di quella fase è piuttosto deludente». Giuseppe Nicoletti, manager dell’Ocse, ci consegna un quadro che mette in evidenza tutti i deficit della classe imprenditoriale: l’Italia è terzultima nella classifica mondiale per i brevetti pro-capite depositati presso le agenzie internazionali; per numero di ricercatori in azienda; per le risorse che le aziende destinano alla ricerca. La storia che racconta Salvatore Rossi, di una azienda italiana sopravvissuta al “copy” cinese grazie all’intuizione di un giovane ingegnere che i manager nemmeno sapevano di avere in organico, è esemplare. Non solo da noi quasi nessuno pensa seriamente all’innovazione, ma i tre nodi fondamentali della rete dell’innovazione – finanza, imprese e pubblica amministrazione – agiscono in modo scoordinato. E allora viene spontanea una domanda: perché a modernizzarsi devono essere solo i giovani precari e i lavoratori se le aziende non hanno nessuna intenzione di investire nel cambiamento? Uno dei capitoli dell’innovazione, ci informa Nicoletti, passa per l’esperienza dei lavoratori italiani presso le multinazionali straniere. In Italia questa pratica è piuttosto scarsa, però. La colpa è ancora una volta dei lavoratori che non cedono abbastanza sul terreno dei loro diritti? Mario Marangoni, manager di successo, mette il dito nella piaga. «Le medie aziende italiane investono nell’innovazione, ma il punto è che non possiamo avere mano libera nell’organizzazione del lavoro», dice. E’ proprio su questo punto che nel corso dell’ultimo rinnovo del contratto dei metalmeccanici si è arrivati allo scontro. Il ragionamento è semplice: il capitale speso nell’innovazione deve ricevere un “ammortamento” entro tempi brevi. E se l’organizzazione del lavoro non cambia al ritmo giusto allora quel capitale viene considerato perduto. «Non esiste una delle condizioni per l’innovazione che il sindacato non sia stato disposto a creare», sottolinea la Maulucci. «Semmai il problema – aggiunge – è di quegli imprenditori che sono chiusi nella rendita e continuano a vivere nei settori protetti».

Una innovazione dalle prospettive incerte, quindi, anche a causa di quella distruzione del “ceto medio” che in Italia sta procurando effetti sociali, e politici, di un certo rilievo. E’ da quella improvvisa metamorfosi, a veder bene, che passa lo spartiacque tra prima e seconda Repubblica. La prima, quella «del trentennio d’oro», per usare le parole del professor Michele Salvati; e la seconda, quella delle spinte “populiste” e “leghiste”. In una parola, la Repubblica del “low cost” (usato da Massimo Gaggi nel libro scritto a quattro mani con Edoardo Narduzzi, “La crisi del ceto medio e la nascita del low cost”) che per sopravvivere butta un occhio al cartellino dei prezzi cercando di resistere tenacemente a tutti i tentativi di imporgli un cambiamento nello stile di vita: dai voli in aereo per i figli che magari vogliono studiare all’estero (altrimenti, di che innovazione parliamo?) all’assistenza sanitaria; paventando in questo modo addirittura l’offerta di un “welfare” low cost. Insomma, se anche la coesione sociale sarà low cost c’è poco da stare allegri.

A fine serata l’invito all’ottimismo arriva direttamente dal ministro dell’Economia Tommaso Padoa Schioppa che, in un affollatissimo auditorium di Santa Chiara, parla delle prospettive dell’Europa. «L’Europa ha inventato due cose straordinarie della civiltà moderna: la sovranità non assoluta degli Stati e la solidarietà sociale», dice. Poi aggiunge: «Non c’è nessun motivo per rinunciare al welfare».