La partita vera inizia adesso

Chi si rivede? La fase due. A botta calda Prodi non aveva gradito la formula e per un po’, di conseguenza, gli sponsor della seconda fase si erano rassegnati alla sordina, almeno sul nome se non sulla sostanza. E invece eccola di nuovo. Rispolvera ed esalta l’espressione incriminata quello stesso Fassino che nel vertice di valla Pamphili, non molto tempo fa, giurava di aborrirla. Al medesimo concetto allude il ministro Padoa Schioppa, anche se evita di enumerare fasi e ci tiene ad accelerare i tempi: meglio procedere subito, appena approvata la finanziaria, entro l’anno.
Prudente, il ministro elenca per titoli le urgenze, senza addentrarsi nello specifico: «Maggiore concorrenza. Più tutela dell’utente. Snellimento delle strutture delle amministrazioni pubbliche». Sin qui ha il gioco facile. Finché si sta all’agenda e ci si ferma ai titoli, nell’Unione non c’è dissenso di sorta. La barzelletta sul braccio di ferro ingaggiato da una coraggiosa area riformista alle prese con le miopi resistenze di un fronte conservatore è una di quelle favole che la stampa ammannisce giorno dopo giorno, ma il martellamento quotidiano non la rende meno bugiarda.

Dopo 15 anni di idolatria neoliberista e riduzione progressiva della democrazia non si capisce cosa la “sinistra conservatrice” dovrebbe conservare.

L’urgenza delle riforme la avvertono tutti, e altrettanto dicasi della necessità non procrastinabile di garantire alla maggioranza e al suo governo una fisionomia ben più marcata e precisa di quanto non si sia fatto sinora. Tutto sta a vedere quale sarà questa fisionomia, quali i contenuti delle voci elencate dal ministro dell’Economia, quale tipo di riformismo il governo dell’Unione sceglierà di adottare come proprio.

Francesco Rutelli ne ha un’idea precisa e non la nasconde. Ha incassato gli applausi della City per il suo piano di privatizzazioni mascherate da liberalizzazioni, si è candidato ufficialmente a punto di riferimento privilegiato delle aziende, può già fregiarsi del titolo assai ambito di erede tricolore della Thatcher, che in certi ambienti è un’onorificenza. Il premier e il suo ministro dell’economia appaiono decisamente più prudenti, ma anche intimoriti dal poderoso attacco mediatico in corso da mesi. I diessini, come sempre, oscillano indecisi a tutto, pur confessando una spontanea simpatia per il riformismo alla Tony Blair.

Svanito o quasi il miraggio di una fulmina caduta del governo Prodi, è sulla interpretazione diversa del riformismo all’interno dell’Unione che puntano, in ordine sparso e seguendo strategie distinte, i partiti della Cdl. Berlusconi spera che il risultato dell’attrito sia una crisi che gli permetterebbe di rientrare in gioco come garante delle “riforme”, e in più senza sporcarsi direttamente le mani con eventuali scelte dolorose.

Questo è il senso della proposta che avanza una settimana sì e l’altra pure: il governo di larghe intese di cui sarebbe socio fondatore e principale azionista ma senza comparire troppo.
L’Udc si dibatte alla ricerca di una strada che la porti alla guida del centrodestra. Meta netta, e in prospettiva alternativa all’Unione. Le vie per raggiungerla potrebbero però essere meno limpide: non escluse alleanze temporanee, in forme da definirsi, con una parte del centrosinistra. La Lega è la Lega di sempre: pronta a ogni piroetta tattica ma granitica nell’eterno obiettivo: separazione tra le aree ricche e quelle disagiate del paese, affondamento di ogni residua traccia di solidarismo.

Tutte queste forze politiche, di maggioranza e di opposizione, perseguiranno dopo la finanziaria le loro distinte strategie sventolando un’identica bandiera: quella del “riformismo”, della “modernizzazione”, della “concorrenza”, dei “tagli alla spesa”. Troveranno grancasse a decine, a mezzo stampa e via etere. Imporranno luoghi comuni. Diffonderanno dogmi.

Per sottrarsi a quello che altrimenti si rivelerà, alla lunga, un accerchiamento impossibile da spezzare, la sinistra radicale, e il Prc prima degli altri, dovrà saper combattere una battaglia tanto politica quanto culturale. Per imporre un modello di riformismo reale contrapposto a quello, in realtà del tutto continuista, che impazza. Per restituire al termine stesso “riformismo” il suo significato originario, opposto alla declinazione assunta da oltre un ventennio, e sbugiardare così una volta per tutte la storiella della “sinistra conservatrice”.

Facile a dirsi. Difficilissimo a farsi. Forse la strada migliore sarebbe ammettere che questa finanziaria è stata soprattutto, e non poteva che essere, una riduzione del danno. Che la partita vera inizia adesso e passa per i contenuti concreti delle riforme indicate da Padoa Schioppa: se si tratterà di liberalizzazioni studiate per avvantaggiare i cittadini-consumatori o invece fatte apposta per garantire profitti ulteriori alle aziende, se il dibattito sulle pensioni saprà partire dall’esigenza di aggiornare il rapporto tra tempi di vita e tempo di lavoro, come chiedeva ieri Bertinotti, o si limiterà a pretendere tagli e innalzamenti indiscriminati dell’età pensionabile. A invocare una nuova fase, rispetto non agli ultimi mesi ma agli ultimi decenni, stavolta potrebbe essere la sinistra radicale. Forse dovrebbe.