La partita di Correa, «el muchachito de Chávez»

Il referendum che si terrà oggi qui in Ecuador è il primo vero banco di prova del governo di Rafael Correa, insediatosi al palazzo presidenziale di Carondelet il 15 gennaio. Oggi si misurerà il consenso popolare di cui gode. Il voto è per dire sì o no all’Assemblea costituente con pieni poteri che riscriva da cima a fonda la costituzione. Questo era uno dei punti-chiave del programma elettorale di Correa – decimo presidente in dieci anni -, che ha dichiarato più volte che in caso di sconfitta si dimetterà.
La costituente deve servire per creare un nuovo ambito legale al paese, per sconfiggere i vecchi equilibri di potere basati sulla commistione tra il potere politico e le oligarchieeconomico-bancarie che hanno amministrato il Paese negli ultimi decenni, applicando con sempre maggiore rigidità le politiche neo-liberiste «consigliate» dal Fmi (fino all’adozione, nel 2000, del dollaro Usa come moneta), e rispondendo sempre più alle esigenze economiche degli Stati uniti: primi nelle importazioni ecuadoriane, primi negli investimenti stranieri, primi nella «protezione» militare (la base aero-navale di Manta).
Dagli anni 80 ad oggi, il progressivo acuirsi della crisi economica e delle disuguaglianze nella distribuzione del reddito, la quasi totale scomparsa di una classe media, il sentimento profondo di sottomissione generalizzata ad un neo-colonialismo palpabile, il disastro sociale e umano prodotto da un’emigrazione torrentizia, ha portato il 26 novembre scorso ad eleggere l’out-sider Rafael Correa, un economista di sinistra («sono un cristiano di sinistra», dice di sè) e senza un partito alle spalle, che i suoi oppositori hanno bollato subito, dopo aver battuto nel ballottaggio con il miliardario bananero Alvaro Noboa, come «el muchachito de Chavez».
L’opposizione (non solo in Ecuador) grida al «populismo» e all’ «autoritarismo», e teme che la costituente apra la strada addirittura a un regime «comunista» alla cubana, sostenendo che sta avviandosi sugli stessi passi del venezuelano Hugo Chavez e del boliviano Evo Morales per strappare il controllo assoluto anche del potere legislativo.
È un fatto che nell’ultimo mese l’opposizione (che nel Congresso è, o era, maggioranza, poiché Alianza Pais, l’improvvisato partito del presidente, non ha candidato nessuno al parlamento) ha subito un duro colpo per mano del Tribunale supremo elettorale, che ha destituito 57 deputati per esseri opposti alla costituente, basandosi sull’attuale costituzione del ’98. Il Tse è un organo «indipendente» che subisce l’influenza governativa, ma che ha ancora i giudici insediati dal precedente governo.
Sino ad oggi i sondaggi attribuiscono a Correa un consenso fra il 70 e il 90%, che è apparso chiaro anche nel durissimo braccio di ferro seguito alle destituzioni dei 57 parlamentari, nelle manifestazioni popolari per impedire il loro ingresso in parlamento.
I sondaggi dicono anche che oggi il sì dovrebbe attestarsi intorno al 60%, tuttavia negli ultimi giorni Correa ha smesso di parlare di rinuncia ammettendo la possibilità che il sì perda a causa di un sistema elettorale che somma i voti nulli e bianchi ai no. Pierina Correa, sua sorella e responsabile dei rapporti internazionali per Alianza Pais, attribuisce quell’alternativa secca – « o vinco o mi dimetto» – al carattere impetuoso del fratello.
Dimissioni o no, questa, a tre mesi dall’insediamento, è la prima vera prova di forza e un passaggio decisivo per il nuovo Ecuador.
Con il referendum non è in ballo solo l’ennesima costituzione. Da una parte stanno le paure gridate per «l’autoritarismo alla Chavez» di Correa; la putrida partitocrazia di sempre che usa la vecchia pratica populista di una zappa, una sedia a rotelle o 30 dollari in cambio di un voto; l’aggressiva campagna pubblicitaria a difesa della dollarizzazione come se esistesse un binomio automatico costituente-abbandono del dollaro (ipotesi negata da Correa come impraticabile «in questo momento»). Dall’altra un presidente impulsivo e diretto che sta costruendo le basi per l’integrazione dell’America latina, che non ha rinnovato la concessione (in scadenza nel 2008) della base Usa di Manta, che ha iniziato le trattative per il Banco del Sur – una sorta di Fmi latino-americano ma su basi solidaristiche -, che sussidia i piccoli produttori – contrariamente a quanto richiedono gli organismi internazionali -, che ha avviato un piano di microcredito statale per la piccola-media imprenditoria nazionale, che ha annunciato il rientro nell’Opec e mosso i primi passi per superare il perverso modello economico che fa dell’Ecuador un paese esclusivamente dedito all’esportazione di materie prime e prodotti agricoli (il petrolio in primis, che da solo conta per la metà delle entrate, e le banane) distorcendo l’economia, che ha ridotto lo stipendio dei funzionari pubblici e governativi (a cominciare da quello del presidente) e raddoppiato il «buono di solidarietà» per i settori più poveri. Un governo che sta costruendo, forse, «il socialismo del secolo XXI», adatto alla realtà dell’America latina.
I dirigenti di Alianza Pais, alla chiusura della campagna referendaria, ostentano tranquillità: «Il popolo sta con Rafael», dicono. E il popolo sembra fidarsi di Correa quando dice che «la nuova costituzione dovrà definire qual è l’idea di sviluppo perseguita dal paese» e che lui sta lavorando per «un’economia incentrata sull’essere umano e non solo sulla produzione» e preferisce «un’economia che guarda all’indice di sviluppo umano prima che al tasso di crescita del Pil».