La Palestina non è in vendita

Le cose, anche quelle più gravi e sconvolgenti, sembrano accadere all’improvviso. Però non è mai così. Quelli che hanno la pancia piena e credono di avere vinto per sempre, anche governando sulle macerie della storia, sono accecati semplicemente dalla loro prepotenza ed arroganza, perché sono convinti di essere sempre in tempo a mettere tutto a posto.
Questo principio ricorrente vale per le piccole cose come per le grandi. Anche io, che non mi considero uno con la pancia piena, sono rimasto ammutolito dalla portata della sconfitta del mio mondo laico, che per decenni ha fatto da baluardo e bandiera per milioni di donne e uomini in medio oriente, persone che hanno pagato un duro prezzo per la loro libertà ed emancipazione.

Abbiamo fallito il nostro obbiettivo, di noi si sono spente le ultime tracce; cancellate le testimonianze di coloro che hanno combattuto gloriosamente. Abbiamo sbagliato, ma siamo stati anche lasciati soli. Anche coloro che parlavano in nostro nome, negli ultimi anni, non ci assomigliavano per niente e per questo abbiamo perso senza suscitare il rimpianto della gente che ci aveva dato tutto. Lo ho dichiarato, detto e scritto in tempi non sospetti. Il nuovo carro non è per me, non è il mio nemico, ma è la mia negazione, cresciuta sulle mie sconfitte. Da giorni ho rassegnato le dimissioni, ma la speranza è l’ultima a morire.

Da tempo stavo cercando, invano, di scrivere a Liberazione, come ho promesso al direttore, non un articolo ma l’articolo; uno scritto che esprimesse il punto di vista di molti della mia generazione sulla situazione in Palestina e nel medio oriente. Come un momento di riflessione, analisi e dibattito, per non lasciare questo compito agli “addetti ai lavori”; per non lasciar circolare versioni dei fatti, con poche eccezioni e distingui, trasversali e pronte a prescindere dalla verità.

Un articolo che non inseguisse le notizie, non si arrampicasse sugli specchi per dare ragione a questo o a quello, ma che mettesse in evidenza il denominatore comune di tanti fatti, grandi e piccoli che stanno convergendo verso cambiamenti radicali che metteranno a repentaglio tutta la regione, come ultima eredità della prima guerra mondiale.

La vittoria del movimento islamico di resistenza, Hamas, ha facilitato questo compito e mi ha risparmiato qualche accusa di catastrofismo, anche se tale vittoria ha superato le mie previsioni e quelle della stessa Hamas, ha accelerato i processi, senza modificare granché il risultato finale verso il quale stavamo inesorabilmente andando come fossimo legati su binari morti.

Nei commenti indignati degli ultimi giorni, fortunatamente un distinguo è venuto dal senatore a vita Giulio Andreotti, un testimone che non ha perso la memoria ed ha messo in fila i fatti che ci hanno portato a questo esito; un altro distinguo è venuto, sebbene con un’angolazione diversa, dallo stesso presidente Bush che ormai conosce bene la gravità della situazione in medio oriente. Una situazione che per lui si è trasformata da una grande vittoria, che avrebbe dovuto rilanciare la dottrina neo-con della guerra permanente ed il dominio del mondo, in incubo e buco nero. Un presidente che sarà ricordato nella storia come colui che ha accelerato il processo del tramonto americano a causa della sue politiche sbagliate.
Il grave è che la vittoria di Hamas non rispecchia la sua forza effettiva ed organizzativa e nemmeno rientrava nel suo programma politico; eppure è una vittoria che esprime l’umore diffuso e la volontà popolare di non accettare la prepotenza israeliana e la paralisi ed il mal governo dell’autorità nazionale palestinese. Non è certo che il movimento di Hamas sarà in grado di raccogliere le sfide che derivano dall’essere un partito di maggioranza assoluta; non è scontato che sarà in grado di misurarsi con il governo quotidiano di una terra sotto occupazione, con enormi difficoltà politiche, economiche e di relazioni internazionali. Per Hamas tutto questo non è che un piccolo dettaglio.

Anche questa ipotesi non deve rappresentare una sorpresa, perché tutta l’area sta andando verso tumulti incontrollabili, in caduta libera come una valanga di neve.

Tutti avevamo sperato nell’ipotesi opposta nata all’avvio del processo di pace e dagli accordi di Oslo nel ’93. Accordi che sarebbero stati realizzati se fossero stati rispettati onestamente da Israele e che avrebbero potuto introdurre cambiamenti radicali, tanto da rendere completamente diverso tutto il quadro in medio oriente.

I governi israeliani, dopo Rabin, hanno considerato la pace come la continuazione della guerra con altri mezzi; il tutto insieme all’indifferenza della comunità internazionale, alla pochezza e all’inaffidabilità delle amministrazioni americane, più interessate ai meccanismi del voto anziché al loro ruolo come unica potenza mondiale. L’ipocrisia di una buona parte delle forze progressiste europee e l’inadeguatezza, con tutte le attenuanti immaginabili, dell’autorità nazionale palestinese, priva di un progetto di governo all’altezza dei problemi e delle aspettative, costituiscono le inquietanti premesse del peggio che oggi vediamo.

Moltissimi hanno votato Hamas senza condividere la sua cultura e la sua strategia, come del resto è per tutte le forze islamiche nella regione, che in caso di elezioni libere vincerebbero di sicuro; sarà una prova difficile, logorante, piena di insidie e rovesciamenti, ma utile per tutti a condizione che si rispettino le regole democratiche e dell’alternanza.

E’ un’occasione per il movimento laico, o quello che ne rimane, per riflettere e fare autocritica, per abbandonare la sua litigiosità, la sua pochezza, e i suoi protagonismi esasperati. Si tratta di riscoprire il lavoro collettivo e l’elaborazione culturale che avevano caratterizzato la storia del movimento palestinese e si tratta di prepararsi per il futuro. Ma ora il tempo è dell’ondata islamica che è appena iniziata nel vicino oriente arabo.

Un’ondata favorita scientificamente o per irresponsabilità dalla politica israeliana ottusa verso le legittime rivendicazioni del popolo palestinese, che non ha risparmiato nessuna occasione per umiliarlo e ledere la autorevolezza e credibilità del suo gruppo dirigente e paralizzare le sue istituzioni; favorita in questo dalla maldestra politica della guerra permanente americana che ha individuato nell’islam il suo nemico principale.

Molti si chiedono cosa farà Hamas adesso che ha la maggioranza assoluta ed è in procinto, su incarico di Abu Mazen, di formare il governo dell’autorità nazionale nata dall’accordo di Oslo basato sul riconoscimento reciproco tra l’Olp ed Israele.

Hamas ora è costretta giorno dopo giorno a scendere sul terreno della politica (Israele permettendo) e di misurarsi con i fatti concreti che il governo del territorio richiede. Come farà a conciliare la sua guida del governo, la responsabilità dell’ordine pubblico, la presenza della sua milizia armata e la questione del terrorismo?

D’altra parte come risponderà alle continue incursioni militari ed alla quotidiana prepotenza e arroganza degli israeliani di fronte alla quale l’Anp, se non ad eccezione di qualche denuncia e protesta verbale, si era completamente arresa guadagnando solo il disprezzo della sua gente in cambio di un salva condotto ai suoi dirigenti che altrimenti rischiavano di fare la fine del presidente Arafat o finire in carcere come Marwan Barghuti?

Come risponderà all’isolamento ed alla questione delle relazioni internazionali, ai problemi economici, della disoccupazione, ai servizi anche minimi che pur bisogna continuare ad erogare nonostante l’ostilità di Israele?

Tutte queste questioni sono comunque irrisolvibili senza la piena ed onesta collaborazione da parte di Israele, collaborazione negata anche ad Abu Mazen per risolvere quei problemi che, secondo il diritto internazionale, devono essere a carico delle potenze occupanti.

Molti palestinesi, e non soltanto militanti di Hamas, negli ultimi anni hanno potuto constatare di avere un’autorità nazionale palestinese senza autorità su nulla, mentre veniva assolto Israele dalle sue responsabilità derivanti dal diritto internazionale. Fino ad oggi il potere palestinese era concentrato, pur con mille ricatti di carattere politico (che segnano il destino ed il futuro politico della Palestina), sulla gestione dei servizi fondamentali: scuola, sanità, viabilità ecc.; tutti servizi che secondo il diritto internazionale devono essere garantiti dalla potenza occupante stessa. Anche gli aiuti internazionali, alla fine dei conti, sono serviti solo a far risparmiare soldi e risorse ad Israele, scaricando sui palestinesi tutti gli oneri e le incombenze, per di più in condizioni proibitive, senza porre fine all’occupazione ma creando un’ipoteca su qualsiasi trattativa sul futuro della Palestina.

A questo si deve aggiungere il danno recato all’immagine dei palestinesi con la complicità dei mezzi di informazione. Una pura e semplice occupazione militare spietata da parte di una nazione contro un’altra viene raccontata come guerra tra due stati, ignorando il fatto che uno di questi stati è tra più i forti al mondo, mentre l’altro è fittizio, occupato militarmente ed esiste solo come prospettiva.

Una prospettiva che viene sempre meno, e che secondo i piani del governo Sharon, “campione di pace”, non si trasformerà in realtà. Molti palestinesi ritengono che il gioco non valga la candela.

Il governo Sharon, con l’accordo con l’amministrazione americana strappato alla vigilia della guerra contro l’Iraq, ha sostituito il principio delle trattative sulla base delle risoluzioni delle Nazioni unite con la politica delle iniziative unilaterali e del fatto compiuto, stabilendo a priori ed arbitrariamente da quali territori ritirarsi e quali territori annettere. Il muro e le colonie ebraiche che continuano a divorare quel poco che rimane della Palestina, ciò su cui doveva essere costruito lo stato palestinese, spiegano bene la strategia del partito Kadima.

In questo contesto, l’esistenza di un governo palestinese non aggiunge nulla e non è in grado di modificare nulla nella strategia israeliana, come dimostra bene il ritiro deciso unilateralmente dalla striscia di Gaza dove l’Anp è rimasta all’oscuro di tutto, compresi i dettagli tecnici necessari per evitare eventuali incidenti.

Hamas come Abu Mazen sanno bene questo; lo sa bene anche il signor Solana che si è adoperato per risolvere la questione del valico di Rafah: passaggio di confine con l’Egitto che comunque rappresenta il marchio della sovranità dimezzata.

Hamas non si trova con le spalle al muro come è successo all’Anp, la quale ha tagliato i legami con la parte del mondo arabo ostile alla politica americana ed israeliana. L’Anp non ha raggiunto risultati tangibili e non ha ottenuto il sostegno della parte più tradizionalmente filo-americana e disponibile a cedere alle pressioni israeliane.

Ad Hamas interessa il punto di arrivo: vedere quanto la comunità internazionale arriverà a costringere Israele a ritirarsi dai territori occupati nel ’67 per creare uno Stato palestinese sovrano. Hamas oggi è più concentrata ad ottenere il controllo sulla Organizzazione per la liberazione della palestina, di cui non ha fatto parte fino oggi, che non sul futuro dei rapporti con Israele.

L’Olp è l’unico legittimo rappresentante del popolo palestinese nel suo insieme, compreso il popolo della diaspora, e non soltanto il consiglio legislativo in Cis-giordania e Gaza, e Hamas porrà fine al dominio incontrastato di al Fatah durata per quarant’anni e irrimediabilmente al tramonto per poi ritessere le sue alleanze regionali ed internazionali in vista di contrastare il progetto del nuovo medio oriente.

A quel punto, in virtù della sua maggioranza assoluta nel consiglio legislativo e della sua guida all’Olp, potrà anche sciogliere l’Autorità nazionale palestinese che ormai è diventata soltanto un peso, elemento di divisione, fonte di privilegi e corruzione, priva di utilità in un processo di pace inesistente e morto insieme al primo ministro israeliano Rabin nel 1995.

Una morte lenta, durata fino alla fine dell’amministrazione Clinton, conclamata con la vittoria di Sharon come espressione della destra israeliana che aveva osteggiato l’accordo di Oslo definendolo, con le parole dello stesso Sharon, come la più grande catastrofe mai abbattutasi su Israele; una morte conclamata, ancora, con la vittoria dei neo-con in America.

Da quel momento, con l’accelerazione causata dalla strage terroristica dell’11 settembre, la questione del processo di pace ha perso la priorità a favore della guerra permanente, la lotta contro il terrorismo a largo spettro e la costruzione del nuovo medio oriente, dove per nuovo medio oriente si intende un’area di dominio americano tagliata su misura israeliana che garantisca la sua supremazia militare ed il suo ruolo regionale guida.

In questo contesto è scomparsa la questione palestinese in quanto questione nazionale di un popolo, è diventata un problema tecnico, su come sistemare una popolazione sparsa in giro in alcune enclave chiuse; un popolo al quale si possono anche concedere degli aiuti, ma in funzione di quel progetto di dominio che riguarda tutta l’area.

Dunque, c’è la preoccupazione internazionale espressa sulla vittoria di Hamas. E c’è anche l’atteggiamento più moderato del presidente americano, che ha gentilmente concesso la sua disponibilità di trattare con Hamas e di continuare il sostegno finanziario all’Anp a condizione che Hamas riconosca israele ed abbandoni il terrorismo.

Ma tutto questo non basta se Israele non si impegna a rinunciare all’occupazione di tutti i territori palestinesi occupati dopo la guerra del 1967 – appena il 22% dei territori tutt’ora occupati – compresa Gerusalemme e a trovare una soluzione della questione dei rifugiati.

Invece di minacciare i palestinesi di tagliare gli aiuti, l’Europa dovrebbe farsi un esame di coscienza e pronunciarsi in modo più chiaro sulle sorti del processo di pace e chiedere ad Israele di dire parole chiare ed impegnative su cosa intenda per pace, quali siano le dimensioni territoriali e in quali tempi intenda realizzarle. Perché le sue minacce sono inaccettabili da tutti i palestinesi, i quali sapevano alle conseguenze a cui andavano incontro quando hanno votato in massa per Hamas. La Palestina non è in vendita.

Gli aiuti di Israele andavano a colmare in parte il vuoto lasciato dal disimpegno dai propri obblighi in quanto nazione occupante, riparando piccola parte dei danni che l’occupazione militare ha prodotto.

La reazione più interessante alla vittoria di Hamas viene dalla stessa società israeliana, dove un recente sondaggio ha dimostrato che il 67% degli intervistati ha dichiarato che bisogna trattare con il governo palestinese anche se quest’ultimo è guidato da Hamas, perché i cittadini – a differenza dai loro dirigenti politici, interessati solo al risultato elettorale – sanno quale abisso aspetta tutti se il conflitto non verrà affrontato politicamente e con serietà. In gioco ci sono le vite ed il destino dell’intera regione ed abbiamo imparato tutti, dalla nostra esperienza diretta, che la guerra che dura da più di mezzo secolo ha solo ingigantito i problemi; che non esistono scorciatoie, per nessuno; che il delirio della guerra e della potenza ha fallito da tempo in Palestina perché continuiamo da sessant’anni a chiedere una soluzione giusta; e che in medio oriente non servivano nuove guerre contro l’Iraq ieri, e la Siria e l’Iran domani, ma era necessario portare a termine il processo di pace in Palestina sulla base della legalità internazionale e non sulla base delle “generose” concessioni di Barak o Sharon.