La «nuova» idea di George Bush: creare uno stato palestinese

George Bush ha deciso quale «eredità» lasciarsi alle spalle al momento di abbandonare la Casa bianca: la creazione del nuovo stato palestinese. La notizia ha cominciato a circolare ieri fra i media israeliani (che citavano fonti americane) e ha avuto anche alcune conferme «fattuali».
Per esempio la circostanza che la settimana scorsa tutti gli ambasciatori americani nei paesi mediorientali sono stati convocati a Washington da Condoleezza Rice (che sta per recarsi nuovamente in zona) per discutere un «piano d’azione» assieme al generale Keith Dayton, suo delegato per il Medio Oriente, e tutti gli «esperti» della materia di cui il dipartimento dispone. Non solo: lo stesso incontro di sabato scorso fra il primo ministro israeliano Ehud Olmert e il presidente palestinese Abu Mazen è indicato come parte del piano. Fra i pilastri della strategia messa a punto, infatti, c’è il contributo che Israele dovrà fornire in termini di «gesti di buona volontà» nei confronti dei palestinesi. Ma dovranno essere gesti molto ben calcolati, tenendo a mente il loro scopo essenziale: rafforzare Fatah e indebolire Hamas.
Fa parte del piano anche la decisione israeliana di ridurre i posti di blocco, cosa che lo stesso Olmert ha in pratica ammesso quando ha detto che la misura mirava a «rafforzare gli elementi palestinesi moderati» e a ravvivare l’economia nella striscia di Gaza «per ridurre la povertà e la disperazione», e perfino la decisione di riprendere «gli assassinii mirati» sembra calzare nel concetto.
Dal punto di vista strettamente «militare», infatti, più gli «estremisti» vengono uccisi, più i moderati si rafforzano. Non sembra calzare invece l’annuncio della creazione di un nuovo, grande insediamento israeliano nella West Bank, dopo anni che simili operazioni erano state sospese. Ma in fondo questo potrebbe rientrare nel particolare che lo stato palestinese che Bush vuole creare avrà confini dichiaratamente «provvisori», come lo stesso piano dice esplicitamente.
Tutto ciò, si diceva, ha una scadenza: il novembre 2008, quando sarà eletto il successore di Bush e lui si troverà a vivere gli ultimi due mesi di presidenza nella condizione, come si dice qui, di «lame duck», anatra zoppa. Insomma lui che appena messo piede alla Casa bianca, dopo le tempestose vicende della Florida, sembrò avere come unica bussola quella di fare il contrario di ciò che faceva Bill Clinton, dedicherà il suo ultimo periodo a fare esattamente come il suo predecessore, che come si ricorderà cercò disperatamente, fino all’ultimo minuto, di giungere a un accordo fra Ehud Barak e Yasser Arafat.
Ma siccome la fiducia in Bush è ormai praticamente a zero, i primi commenti su questa sua trovata non gli concedono neanche un minimo di lungimiranza. In realtà, dicono, l’idea potrebbe avere una scopo molto più immediato, come per esempio la necessità di spostare l’attenzione dal disastro iracheno, su cui lui dovrà presto annunciare la «nuova strategia». Quell’annuncio era stato fissato per la vigilia di Natale e poi spostato a gennaio, ma i segnali arrivati in questi giorni dalla Casa bianca sono tutti del tipo «niente di nuovo» ed anzi si parla insistentemente dell’invio di altri soldati (c’è chi dice addirittura 30.000). Se sarà davvero così, quelli che grideranno alla grande delusione saranno legioni e Bush, sempre secondo i primi commenti di cui sopra, starebbe cercando una sorta di diversivo per «arricchire con qualcosa di positivo» le discussioni.