La nuova classe dei lavoratori

E’ un fatto noto e politicizzabile: i media, nell’arco di tempo che va dalla nascita del governo Berlusconi ad oggi, hanno triplicato il racconto delle violenze rispetto allo stesso arco di tempo misurato per il governo Prodi. E’ evidente che la paura viene considerata dalla destra come un terreno privilegiato dell’organizzazione del consenso sociale ed elettorale.

Nel 2003 era Robert Castel (nel suo “L’insécurité sociale. Qu’est–ce qu’être protégé? ”- Seuil, Paris ) a mettere a fuoco la contraddizione data dal fatto che, nei paesi a più alto sviluppo, «si vive nei più alti regimi di sicurezza storicamente determinatisi e nel contempo si è sempre più propensi ad indicare in un qualsiasi soggetto diverso da sé – innanzitutto l’immigrato – il responsabile maligno di ipotetici attacchi al sistema sicurezza». Ed è stato Zygmunt Bauman a scrivere (in “ Modus vivendi”, 2007 – Laterza) «che vi è un nesso profondo – specie in Europa – tra lo svilupparsi dell’individualismo moderno, la crisi del welfare e la crescente paura sociale dallo sbocco razzista e reazionario».

Ma la costruzione scientifica della paura, da parte della reazione, appare essere sempre più chiaramente un tassello fondamentale della costituzione di quel vasto esercito industriale di riserva – composto da forza lavoro immigrata – funzionale al profitto capitalistico. Attraverso l’estensione della paura dal corpo sociale alla stessa area dei lavoratori immigrati si possono collocare questi ultimi nel mercato inferiore del lavoro, una postazione sociale dalla quale – per timore – non si possono rivendicare né salari, né contratti, né diritti.

Ve lo immaginate Ibrahim, del Marocco, che dopo aver conquistato uno straccio di lavoro chiede ad un padroncino leghista un salario adeguato?

La paura sociale e il disagio di classe di un movimento operaio autoctono ai cui fianchi cresce un vasto esercito industriale di riserva che dà al padrone l’opportunità del ricatto (“se tu non ti accontenti di un basso salario – operaio “bianco” – ne ho tanti altri – “neri”- disposti a lavorare”) rappresentano fenomeni nuovi e sostanzialmente privi di elaborazione politico-teorica (nel senso che non possiamo trovare nei Quaderni di Gramsci riflessioni in merito, tutt’al più qualcosa sull’esperienza delle lotte per l’inclusione dei lavoratori italiani meridionali nel nord del miracolo industriale).

L’esigenza di elaborare un disegno teorico ed una prassi volti a mettere in campo una risposta di classe a tali questioni (come al costituirsi di immense aree di nuovo proletariato e sottoproletariato negli inferni delle periferie metropolitane: ricordiamo lo sconcerto e l’inerzia del Pcf durante le rivolte delle banlieue parigine?) rappresenta un pezzo dell’esigenza complessiva di rilanciare un’idea-forza comunista all’altezza dei tempi e dell’odierno conflitto capitale/lavoro.

La situazione, anche per i comunisti, è particolarmente arretrata, mentre è anche su questo terreno della lotta contro la divisione sociale tra lavoratori autoctoni ed immigrati che potrebbero ripartire un pensiero ed una prassi anticapitalisti.

Caliamoci nell’analisi concreta della situazione concreta: nel Cantiere navale di Ancona su circa 1.500 operai, 800 sono immigrati ipersfruttati e 700 autoctoni, dipendenti della Fincantieri. Tra immigrati senza salari e diritti e autoctoni con contratto (miserabile) di lavoro si scatena l’inevitabile guerra quotidiana tra poveri, e gli uni sono contro gli altri.

Come interviene il sindacato? In nessun modo: neanche la Cgil è pronta a questo nuovo impegno di classe.

Come si muovono i comunisti? In nessun modo, anch’essi sono spettatori passivi della realtà.

Cosa occorrerebbe fare? Si potrebbe partire dalle piccole cose: i comunisti dovrebbero favorire incontri costanti tra lavoratori immigrati ed autoctoni; dovrebbero mettere a disposizione o trovare per tali incontri sedi ( di partito, case del popolo, luoghi “neutri” ma che col tempo possano diventare riconoscibili e ed essere vissuti come punti di riferimento solidali); dovrebbero tentare di favorire, tra autoctoni ed immigrati, la costituzione di un legame, una “connessione sentimentale” (incontro tra le famiglie, ad esempio), svolgendo un’azione pedagogica e di classe volta a mettere a fuoco il nemico comune (il profitto capitalistico) che divide i lavoratori “bianchi” da quelli “neri”.

E occorrerebbe che i comunisti svolgessero una battaglia specifica nelle organizzazioni sindacali volta a spingere i sindacati ad un impegno all’unità di classe tra immigrati ed autoctoni, con lotte e vertenze solidali e la costruzione di una coscienza comune che dalla comprensione delle categorie della spoliazione imperialista e dello “scambio diseguale” di merci tra paesi poveri e ricchi (quali basi materiali della fuga biblica dei dannati della Terra nel mondo dell’illusione capitalistica) giungesse alla comprensione del fenomeno dell’esercito industriale di riserva e alla lotta per la dissoluzione della sua forma subordinata, quale lotta generale della “classe” (della nuova classe, “bianca e nera”) contro i padroni.

Il mondo è nuovo anche per i comunisti e in questo mondo nuovo essi debbono adeguare il loro agire e il loro pensiero.

*Direzione nazionale PRC; direttore de “ L’Ernesto ”