L’Africa dal «Consenso di Washington» al «Consenso di Pechino»? Il trasloco sembra ormai avvenuto, mentre nella capitale cinese si sono da poche ore spente le luci abbaglianti dello storico vertice sino-africano che domenica si è chiuso con una dichiarazione congiunta letta dal presidente cinese Hu Jintao, il premier d’Etiopia, Meles Zenawi (che nel 2003 ha ospitato il primo Forum Cina-Africa) e da Hosni Mubarak, eterno presidente egiziano (che ospiterà il Forum del 2009). «Proclamiamo qui solennemente la costituzione di un nuovo tipo di alleanza strategica tra Cina e Africa» hanno detto davanti ai leader, tra capi di stato e di governo, di 48 paesi africani che per una settimana si sono riuniti nella capitale cinese, invasa e stravolta da un evento che non aveva precedenti nella storia cinese, ma neppure in quella mondiale.
Una buona dose di retorica ingolfa in genere le dichiarazioni finali, e questa non fa eccezione, ma è un vero intento politico quello espresso nel passaggio in cui si afferma «proponiamo di aumentare la cooperazione sud-sud e un nuovo dialogo nord-sud per promuovere uno sviluppo sostenibile dell’economia globale che consenta a tutti i paesi di condividere i suoi benefici». Al quale segue immediatamente il paragrafo «Sosteniamo che l’Onu dovrebbe rafforzare il proprio ruolo attraverso le riforme, prestare più attenzione alla questione dello sviluppo e considerare una priorità la crescita della rappresentanza e della parola dei paesi africani nelle agenzie dell’Onu».
E’ tutto in questi passaggi il nuovo «soft power» cinese, una diplomazia felpata che ha come slogan «il pacifico sviluppo» mondiale ma è guidata da una ferma determinazione ad assumere un ruolo di primo piano nello spingere la governance mondiale verso una nuova multipolarità. Non si tratta dunque solo di affari, o accaparramento di materie prime in una sorta di «neocolonialismo» (accusa rivolta sempre più spesso a Pechino da noti colonialisti d’antan), anche se questa diplomazia sarebbe perdente se non fosse sorretta dagli «hard deals». Accordi commerciali, finanziari, di investimento e di aiuto che domenica da Pechino hanno avuto nuovo impulso: 1,9 miliardi di dollari in intese commerciali, 5 miliardi fra prestiti e crediti agevolati all’esportazione entro tre anni, impegno a raddoppiare l’attuale interscambio commerciale (attualmente 50 miliardi di dollari) entro il 2010, costituzione di un fondo di sviluppo per la costruzione di scuole e ospedali, formazione professionale per 15mila studenti africani, apertura di almeno tre zone di cooperazione speciale nell’Africa subsahariana, azzeramento delle tariffe doganali su 440 prodotti africani.
Certo, Pechino ha saputo colpire e affondare nel punto più fragile del globo. L’Africa malata, sfruttata, dissanguata dai conflitti ma sempre ricchissima di materie preziose e strategiche per i ricchi del pianeta, ha aperto ancora una volta le braccia ai «nuovi» partner che sembrano avere regole del gioco certo spregiudicate ma meno strozzine e ipocrite di quelli che li hanno preceduti. La non intromissione negli affari interni ribadita dalla Cina sulla base dei Cinque principi di Coesistenza Pacifica è criticata violentemente come difesa dei peggiori leader africani. Ma almeno ha la «virtù» di non selezionare fra ceffi cattivi e ceffi buoni solo perché amici. Su 53 paesi africani, 48 si sono riuniti a Pechino (gli altri 5 riconoscendo Taiwan). Nessun altro, e di certo non gli Stati uniti, avrebbe potuto fare altrettanto
Piaccia o meno è dunque una sponda politica che la Cina ha offerto a tutta l’Africa per uscire dal ghetto politico in cui la fine della Guerra Fredda l’aveva di nuovo chiusa (anche se a suo tempo anche il bipolarismo si era rivelato talvolta una tenaglia).
«I cinesi stanno facendo più del G8 per consegnare la povertà alla storia» ha dichiarato Sahr Johnny, ambasciatore della Sierra Leone a Pechino «Non stanno a discutere sull’impatto ambientale, i diritti umani, il buon governo. Non dico che è giusto. Dico che gli investimenti cinesi hanno successo perché non pongono condizioni troppo elevate». E’ stato così che quando la Nigeria aveva bisogno di rafforzare la sicurezza nel delta del Niger, gli Stati uniti hanno esitato e la Cina è intervenuta subito offrendo motovedette. E quando l’Angola aveva bisogno di 2,5 miliardi di dollari di prestiti e il Fondo Monetario esigeva troppo, Pechino ha messo mano alla propria cassa.
In cambio, ha avuto petrolio (l’Angola è oggi il primo fornitore di greggio alla Cina), contratti di prospezione in nuovi giacimenti, compartecipazioni nell’industria petrolifera e mineraria del continente africano. Oltre che fosfati dal Marocco, rame e cobalto dalla repubblica democratica del Congo e dallo Zambia, platino dal Sudafrica, legname dal Camerun e dal Gabon.
E’ vero, non è più Bandung, non sono i valori dei non-allineati ad essere affermati nella nuova alleanza strategica, che rispecchia perfettamente i tempi grami che corrono. Stavolta la Cina dà battaglia nello stesso campo, quello dell’economia globale, competitiva, sviluppista. In un amaro sfogo consegnato al New York Times, un anonimo diplomatico del Benin lamentava «Noi siamo uno stato marxista-leninista, abbiamo alle spalle 30 anni di relazioni con la Cina popolare, che ora ci ignora per andare in Gabon. Questo significa che la Cina non ha amici, ha solo degli interessi».