La necessità economica della guerra

Al di là dei toni, dei giudizi e delle prognosi, su cui si registrano divergenze anche marcate, la grande stampa dei paesi occidentali ha fatto propria sin da subito, con poche e significative eccezioni, la rappresentazione della guerra afgano-statunitense prospettata dall’amministrazione Bush e dai suoi alleati. Si tratta della legittima difesa del mondo civile contro un terrorismo feroce, ormai in grado di colpire ovunque. La dimensione globale della minaccia legittima la vistosa asimmetria del conflitto e nello stesso tempo rende ragione di un’alleanza di inedite proporzioni, giunta a comprendere tutti gli Stati, salvo – va da sé – la canaglia irachena. A più di un mese dal martedì nero di New York e Washington e a dieci giorni dall’inizio dei bombardamenti angloamericani, è opportuno domandarsi se questa rappresentazione colga l’essenza della prima guerra del nuovo millennio.
A questa domanda si deve rispondere negativamente per una semplice ragione. Benché si intoni perfettamente con il “paradigma imperiale” che ha conquistato l’immaginario politico di massa, lo schema dell’alleanza globale contro il terrorismo oscura in realtà proprio la posta politica in gioco nel conflitto, del quale, con tutta probabilità, impedisce di comprendere la stessa genesi. Per parafrasare Mario Deaglio, autore di un lucido intervento apparso sulla Stampa del 15 ottobre, questo schema induce a perdere di vista “l’elemento politico sottostante all’azione e alle dichiarazioni” del presidente Bush e dei leader politici schierati al suo fianco. Se, al contrario, si vuole tenere nel debito conto tale elemento, occorre parlare di una guerra tradizionale, connessa con il più classico obiettivo strategico, a sua volta definito da precisi interessi economici e “geopolitici”.
Su quest’ultimo aspetto, illustrato, su queste pagine dagli ottimi interventi di Tommaso Di Francesco e Manlio Dinucci, ma tendenzialmente trascurato dai commentatori, non si insisterà mai abbastanza. Nelle sue linee di forza, il quadro limpido e, soprattutto, non inedito. Nel corso dell’ultimo decennio il Pentagono e tutti i più ascoltati “uomini del Presidente” hanno insistito sulla necessità, per gli Stati Uniti, di controllare militarmente e politicamente la cintura che collega il Mediterraneo all’Oceano Indiano, attraverso il Golfo Persico e il Caspio. Sul piano strategico, l’area assomma agli enormi giacimenti di gas e petrolio il valore aggiunto della collocazione geografica, a ridosso delle altre potenze militari ed economiche emergenti (Cina e India in primis, ma anche Indonesia e Russia).

In questo quadro è fonte di preoccupazioni particolarmente gravi, per gli Stati Uniti, l’attuale dinamica dello sviluppo economico mondiale, che, stando a proiezioni Ocse, tra circa vent’anni vedrà la “triade” capitalistica (Usa, Ue, Giappone) ampiamente superata (28% del Pil mondiale contro 35%) da queste quattro potenze subcontinentali e dal Brasile. Con buona pace di quanti si fermano dinanzi al recente ingresso della Cina nella Wto, convinti che questa circostanza testimoni il venir meno dell’antagonismo strategico tra est e ovest, è proprio questa dinamica tendenziale a generare uno squilibrio crescente e dirompente e a dettare tempi rapidi per la conquista e il controllo politico-economico della regione euroasiatica. Dopodiché – terrorismo o meno – le ripetute avances statunitensi tese a preparare l’opinione pubblica mondiale al probabile allargamento del conflitto verso le Filippine, l’Indonesia e la Malesia (presentate come luoghi di insediamento di Al Qaeda) e verso l’Iraq (giorni fa il quotidiano israeliano Ha’aretz dava per “indubbio” il proposito americano di intensificare i bombardamenti “preventivi” contro Baghdad) assumono un significato più preciso.
Ma quando si dice “guerra tradizionale”, ci si riferisce anche a un altro insieme di questioni. Sembra scomparsa dal dibattito qualunque riflessione circa le funzioni della guerra nel mondo contemporaneo. Non sarebbe male, a questo riguardo, se qualche editore tornasse a pubblicare un piccolo libro che trentacinque anni fa, quando vide la luce negli Stati Uniti, suscitò un pandemonio e costrinse John Galbraith, accusato di esserne l’autore, a formali smentite. Nel Rapporto segreto da Iron Mountain sulla possibilità e desiderabilità della pace (edito in Italia da Bompiani nel 1968, ma oggi pressoché introvabile) gli esperti incaricati dalla Casa Bianca di disegnare gli scenari interni e internazionali determinati dall’eventuale venir meno di ogni conflitto bellico passavano in rassegna le funzioni economiche, politiche, sociologiche, ecologiche, culturali e scientifiche della guerra e le minacce che un duraturo stato di pace avrebbe comportato per la stabilità dei governi e delle economie.

Non si trattava certo di assolute novità, ma piuttosto di una riedizione su larga scala del celebre paradosso di Mandeville, per il quale i peggiori vizi privati si rivelano saldi cardini dell’ordine sociale. Senza furti, niente produzione né commercio di serrature, portoni e infissi; senza adulteri, crisi di sarti e parrucchieri; senza omicidi, disoccupazione di sbirri, magistrati e boia, dunque anche fine della pace sociale e dell’ordine politico. La virtù – questa l’irriverente morale del ragionamento – porta con sé miseria e anarchia, mentre la trasgressione e la violenza favoriscono la pace e la ricchezza e nutrono persino la gioia di vivere. Così sul piano mondiale, dove la guerra – notavano i consulenti della Casa Bianca – “è essa stessa la base principale dell’organizzazione su cui sono costruite le società moderne”, la fonte di “quasi tutti i più importanti progressi industriali” e un fondamentale volano “per l’aumento del prodotto nazionale lordo e della produttività individuale”.
Nulla di nuovo. Nondimeno, colpiscono taluni passaggi del Rapporto, nei quali l’attuale fase di fibrillazione internazionale sembra prefigurata nei minimi dettagli. Posto che la paura di massa costituisce un formidabile fattore di stabilitê e di legittimazione, gli “esperti” raccomandavano di individuare fonti di paura alternative alla guerra e annoveravano tra queste la “contaminazione massiccia, su scala mondiale, dell’ambiente naturale” e la creazione di “nemici alternativi fittizi”. Premesso che “un valido sostituto politico della guerra deve porre a ogni società una minaccia esterna generalizzata”, essi individuavano tale surrogato “in una forza di polizia internazionale”, di cui auspicavano la costituzione. Stabilito che “nelle società moderne, nessun gruppo politico dominante riuscito a mantenere la sua autorità dopo esser fallito nell’impresa di far apparire credibile una minaccia esterna di guerra”, il Rapporto sottolineava infine la necessità di fissare con precisione i “livelli minimi di distruzione di vite umane necessari per conservare credibilità alla minaccia di guerra in situazioni politiche diverse”.
Si capisce l’infuriare delle polemiche che ne segnarono la circolazione, ma non è questo, oggi, il punto. Il problema è piuttosto la perdita di memoria collettiva in ordine a tali questioni. Non si intende suggerire che tutto quanto sta accadendo nel mondo sia frutto di un complotto ordito dagli strateghi del Pentagono. Semplicemente, si vorrebbe che all’orrore per “lo stupro di New York” (Man) si accompagnasse un minimo di spregiudicatezza, tanto più che già nel ’98 Clinton promise di scatenare “una jihad per la sicurezza nazionale” e che a tutt’oggi nessuna prova è stata fornita circa la colpevolezza di Al Qaeda per i fatti dell’11 settembre e per i recenti episodi di bioterrorismo. Questo vale in particolare per il nostro paese, visto che su autorevoli giornali stranieri c’è chi (come Arundhati Roy sul Guardian dell’1 ottobre) arriva a paragonare Bush a Bin Laden e si concede il dubbio che a sferrare l’attacco terroristico non sia il fondamentalismo islamico ma “i fantasmi delle vittime delle vecchie guerre americane” dalla Corea al Nicaragua, dal Vietnam ai Balcani.
Due parole, infine, sulle alleanze che sembrano vedere oggi persino Iran e Libia al fianco degli Stati Uniti nella “lotta contro il terrorismo”. Come potrebbe spiegarsi questa gigantesca union sacrée se fossimo davvero al cospetto di una guerra imperialistica condotta da Stati Uniti e Inghilterra nel nome di interessi geopolitici nazionali? A prima vista inoppugnabile, questa obiezione in realtà è inconsistente e si rivela fondata su un equivoco. Allearsi non significa né identificarsi, né condividere la totalità degli obiettivi. Talvolta ci si allea per mancanza di alternative, e sempre sulla base di un calcolo. Oggi, chi potrebbe permettersi di chiamarsi fuori dalla “lotta contro il terrorismo” e che cosa ne guadagnerebbe? Merita piuttosto attenzione quanto sta avvenendo tra le diverse componenti di una “alleanza” che a tutto fa pensare meno che a una unità di interessi e di intenti.

Nei confronti degli alleati europei (non soltanto del nostro piazzista in cerca di perdono, ma anche del cancelliere tedesco che rivendica alla Germania “una nuova responsabilità internazionale”) gli Stati Uniti manifestano un sussiego prossimo al disprezzo. Non solo l’Onu, ma i G8 e la stessa Nato sono trattati con fastidio, alla stregua di irritanti burocrati. Non parliamo poi degli “alleati” dell’ultima ora, dai quali semplicemente si tratta di guardarsi e che mal digerirebbero un eventuale allargamento del conflitto. Mentre si dichiarano a favore della lotta contro il terrorismo, gli ayatollah iraniani denunciano le mire coloniali degli Usa e l’effetto destabilizzante dei loro raid. Russi, indiani e cinesi non intendono assistere inerti alla conquista dell’Afghanistan o a un suo eventuale smembramento, né, tanto meno, alla creazione di piccoli “Stati barriera” schierati ai loro confini come armi di deterrenza. A loro volta, gli alleati afghani di Washington scalpitano ai nastri di partenza e l’amministrazione Bush è preoccupata per le lotte intestine che divampano tra le fila degli antitalebani mentre il regime pakistano è insidiato dai propri gruppi integralisti.
Ad uno sguardo attento, poco resta in piedi dell’apparente monolita “imperiale” e del mito di un nuovo ordine “unipolare”. Lungi dal consacrare la presunta sovranità planetaria degli Stati Uniti, gli avvenimenti seguiti all’11 settembre hanno posto il mondo dinanzi al proliferare di numerosi centri di potere regionale in reciproco conflitto. Da questo punto di vista, la promessa americana di una guerra lunga e senza quartiere dovrebbe indurre in tutti – europei compresi – le più serie preoccupazioni.