Nato alla disperata ricerca di una via d’uscita da Kabul e dintorni. Il fantasma della disfatta militare in Afghanistan infatti costringe i responsabili dell’Alleanza e gli alfieri del suo nuovo ruolo globale (Usa in testa) a correre ai ripari prima che sia troppo tardi e la sconfitta inevitabile per i 37 paesi coinvolti.
Un iper attivo segretario generale della Nato sta concedendo interviste quotidiane ai principali giornali del pianeta (solo negli ultimi giorni a Le Monde e all’Herald Tribune) per dire senza mezzi termini che sull’Afghanistan «una soluzione militare non esiste» e bisogna invece «costruire ponti, strade, ospedali». L’uomo che fino a poco fa si distingueva per avere più cacciabombardieri e truppe speciali pare ora aver mitigato il suo orientamento.
Jaap De Hoop Scheffer, infatti, ha un disperato bisogno di risultati da mostrare al prossimo vertice Nato a Riga (28-29 novembre). La prima missione fuori dall’Europa è a tutt’oggi un buco nero strategico. Gli Usa premono per mettere nero su bianco il ruolo di «esercito globale» messo in campo per la prima volta attorno a Kabul: Francia, Germania e Spagna sono contrari. Così Scheffer (che il 27 ottobre è volato alla Casa Bianca) punta il dito contro l’Unione europea: «L’Europa deve farsi carico dell’intero processo di addestramento delle forze di polizia afghane – dice all’Herald Tribune – perché questo è parte della exit strategy». Attualmente la Germania addestra la polizia, l’Italia ricostruisce il sistema giudiziario e la Gran bretagna dovrebbe vigilare sul traffico di droga (cresciuto però del 160% in un anno). La Nato in via di fallimento insomma vuole assolutamente allargare le responsabilità all’Ue e al suo «Mr Pesc» Javier Solana, che però nicchiano e sono accusati di rimando di sordità. Scheffer è quasi brutale: «Il problema sicurezza non è un concorso di bellezza». Anche i vertici Isaf, a partire dall’inglese David Richards, fiutano una brutta aria, già sotto accusa per la strage di Panjwayi, chiedono ai civili più fondi per la ricostruzione: «Dobbiamo costruire cose che colpiscano l’immaginazione della gente e la convincano a stare dalla nostra parte».
A Downing Street ieri Romano Prodi ha concordato con Tony Blair «sulla necessità di accompagnare la presenza militare in Afghanistan con iniziative politiche ed economiche di ampio respiro per aiutare il paese a uscire dalla dipendenza dalla coltivazione di oppio e dalla frammentazione politica». Il Professore e il premier inglese guardano al Libano, a Gaza, alla questione palestinese affermando che l’Europa «ha il dovere della proposta». Un simile attivismo diplomatico coinvolge soprattutto la Farnesina, che da mesi lavora a fari spenti a una conferenza sull’Afghanistan simile a quella che si radunò sul Libano: un vertice aperto a tutti i paesi dell’area (Pakistan in testa), ai donatori, all’Onu e alla Nato. Il sottosegretario Gianni Vernetti ha appena compiuto un primo viaggio a Islamabad incassando il sì del premier Skaukat Aziz.
Che qualcosa si stia muovendo prima del delicato rifinanziamento della missione (che scade a dicembre) si intuisce anche dalla prudenza della cosiddetta «sinistra radicale». «Dopo le dichiarazioni di Scheffer non ci sono più alibi – dice il capogruppo dei Verdi alla camera Angelo Bonelli – il fallimento della strategia militare rende necessario un cambio di passo totale, il ritiro delle truppe e la convocazione di una conferenza di pace internazionale».
«Le elezioni in America e i ripensamenti in seno alla Nato sono un’occasione che non possiamo sprecare per una riflessione internazionale sull’Afghanistan – dice il capogruppo Prc in senato Giovanni Russo Spena – noi vogliamo da sempre sostituire le truppe con strumenti di cooperazione civile, rispetto a qualche tempo fa oggi sono più fiducioso su un’intesa che ci soddisfi tutti». I tratti di un’intesa possibile si trovano perfino indirettamente descritti sull’ultimo numero di Limes dal senatore Francesco Martone. Il Prc guarda ora soprattutto alla manifestazione per la pace del 18 a Milano, un trampolino che come sulla precarietà scarti dal braccio di ferro di palazzo per arrivare al momento delle decisioni con l’atout della pressione pacifista della maggioranza dell’opinione pubblica.