È livido il colore delle periferie abitate dai profughi delle ultime guerre balcaniche. Lividi i campi profughi degli zingari in fuga dal Kosovo intorno Belgrado, i centri per profughi serbi e rom nel sud della Serbia, spesso nidi di bambini disperati in catapecchie di cartone e lamiera. E sempre livida è la vasta periferia di accasamenti, paesucoli, baraccamenti di albanesi e rom intorno alla capitale montenegrina, Podgorica. Già quando si chiamava Titograd la cosa che più sorprendeva della città erano i vuoti e i pieni, le luci, rade, e all’improvviso il buio pesto. È in questa scena senza autori e protagonisti che si perdono le vite umane di quanti hanno subìto la guerra e ora subiscono la furba violenza del dopoguerra. Quasi impossibile ricostruire le identità individuali. A volte però è perfino necessario.
Si chiamava Kujtim Berisha l’uomo morto il 15 febbraio scorso in un incidente stradale – uno come centomila nel mondo – nel quartiere di Konik a Podgorica. Secondo i primi accertamenti della polizia, una macchina guidata lo ha investito in una strada non illuminata mentre era in compagnia di due rom. L’autovettura è risultata guidata da un tal Aleksandar Ristovic, montenegrino, che ha spergiurato di non avere visto il gruppo di persone che camminava. Non è ancora chiaro se Ristovic fosse alticcio, ma la dinamica del cosiddetto incidente non ha convinto gli agenti. Alla fine della giornata il portavoce della polizia, confermando la morte dell’albanese avvenuta subito dopo l’investimento, ha annunciato nella sorpresa generale che Aleksandar Ristovic è stato arrestato. Ci vogliono vedere chiaro, quell’incidente non sembra una disgrazia…
La faccenda sarebbe diventata più chiara nei giorni seguenti, quando alcuni giornali locali, in primo luogo Vijesti, hanno in parte ricostruito alcune incongruenze di quell’«incidente». E soprattutto hanno provato a raccontare con brevi flash la figura dell’albanese investito. Perché la vita degli scampati alla guerra nel vasto dopoguerra dei silenzi complici, si riduce a un tratto e a nulla più.
Kujtim Berisha, con il cognome più albanese che c’è, era originario di Decani, una frazione di Djakovo/Djakovica dove ha sede il più importante monastero ortodosso tuttora vigilato da un contingente italiano della Kfor-Nato. Aveva 32 anni ed era uno dei pochi albanesi disposti a testimoniare contro l’ex premier del Kosovo Ramush Haradinaj accusato di crimini di guerra con ben 37 capi d’imputazione dal Tribunale dell’Aja per i crimini di guerra nell’ex Jugoslavia. Haradinaj, ex comandante dell’Uck, non avrebbe solo ucciso e torturato serbi e rom, ma anche civili albanesi considerati «moderati» o che non sostenevano l’Uck, le milizie dell’esercito di liberazione del Kosovo. «Uccisioni, torture, trattamenti crudeli, atti disumani», tra cui stupri di gruppo, che secondo il Tribunale dell’Aja sarebbero stati commessi tra il marzo e il novembre del 1998 – ben prima della cosiddetta «guerra umanitaria» della Nato e a conferma che le violenze etniche non furono solo quelle delle milizie serbe. In particolare gli accusati di «collaborazionismo e slealtà» nelle zone di Pec e Decani (settore kosovaro definito dall’Uck «Dukagjini»), insieme a serbi e rom venivano detenuti in un apposito campo di concentramento gestito dall’Uck nella località di Lapushnik.
Ramush Haradinaj lunedì scorso, il 26 febbraio, è partito da Pristina per l’Aja dove l’aspetta il processo definitivo, salutato da una piccola folla di simpatizzanti che si erano radunati all’aeroporto, promettendo di tornare al più presto. Poco prima è stato ricevuto – con gli onori di un premier non con la circospezione con cui si incontra uno che è in attesa di giudizio per crimini così infamanti, dal governatore dell’Unmik Joaquim Ruecher. Dall’Aja avevano, inascoltati, espressamente chiesto che l’incontro venisse cancellato. Nel 2005 era stata formulata l’incriminazione contro di lui. Si era autoconsegnato. Giallo politico. Com’era possibile incriminare un premier? Presto detto. A fine 2004, dopo le elezioni vinte senza maggioranza dalla Lega democratica di Ibrahim Rugova, l’ex presidente kosovaro-albanese, a sorpresa aveva nominato primo ministro proprio Ramush Haradinaj, leader del partito Alleanza per il futuro che non si era proprio affermato nelle indicazioni di voto – aveva votato fra l’altro soltanto il 50% dei kosovaro-albanesi aventi diritto e solo i kosovaro-albanesi. «Rugova ci ha stupiti», dichiarava la stessa Carla Del Ponte che, proprio in quei giorni interrogava Haradinaj all’Aja. Forse nelle intenzioni di Rugova serviva un premier debole. O un premier ricattabile? Fu uno dei pesanti lasciti dell’indiscusso leader-presidente della rivendicata indipendenza del Kosovo. Haradinaj tornò poi in libertà provvisoria per la morte «oscura» del fratello e alla fine in regime di arresti domiciliari su decisione dell’Aja ma con parere contrario di Carla Del Ponte. Il Tribunale giudicò che non avrebbe potuto compromettere il processo, comunque gli erano interdetti gli incontri pubblici. Che immancabilmente ci sono stati. Nei molti discorsi in pubblico da lui tenuti si è ravvisata all’Aja una «velata minaccia» proprio contro i testimoni.
Ora il processo è fissato per il 5 marzo prossimo. Per i crimini infamanti che gli vengono addebitati, pochi albanesi sono disposti a parlare. Secondo fonti giornalistiche locali di Podgorica, Kujtim Berisha poco prima dell’«incidente» si era appena recato a parlare con un diplomatico straniero proprio sulla questione della sua imminente deposizione. Un rischio, una pericolosità e una scarsità che riguarda questi testimoni già sottolineata dallo stesso procuratore capo del Tribunale dell’Aja Carla Del Ponte, tanto che una fonte giudiziaria ha poi ammesso che un terzo dei 98 testimoni si trova attualmente sotto protezione. Protezione? La sera di 15 giorni fa alla periferia di Podgorica, l’albanese «moderato» Kujtim Berisha non deve essersene accorto.