In Iraq, o altrove, poche lacrime verranno sparse per la morte di Abu Musab al Zarqawi. Il suo bigottismo letale ha sollevato diversi interrogativi. Chi era costui? È arrivato dalla Giordania con l’occupazione dell’Iraq e lì si è fondato un suo gruppo. Questo sappiamo. La maggioranza degli iracheni ostili all’occupazione lo credevano un impostore. Osama Bin Laden lo ha pubblicamente denunciato. La sua morte cambierà qualcosa? Non credo. Chiunque fosse Zarqawi, non era personalmente responsabile per il caos selvaggio che persiste oggi in Iraq. Né la sua morte porrà fine alla resistenza visto che ne è sempre rimasto ai margini. In mezzo al costante deteriorarsi della situazione in Iraq, sarà presto dimenticato.
L’ occupazione americana è ancora incapace – dopo tre anni e costi che superano i 200 miliardi – di assicurare un minimo di fornitura regolare di acqua ed elettricità alla gente che ha soggiogato. Le fabbriche sono ferme. Ospedali e scuole funzionano a malapena. Gli introiti del petrolio sono stati saccheggiati e svenduti dai tirapiedi americani locali, per non parlare delle orde di contractors americani e del loro giro di appalti. Se sotto le sanzioni Onu le condizioni per la maggioranza della popolazione erano sciagurate, sotto gli americani si sono persino aggravate, mentre gli omicidi di carattere confessionale si moltiplicano e i più elementari livelli di sicurezza sono ormai inesistenti.
Nel mezzo di questo orizzonte infernale, il morale degli occupanti stessi dà segni di cedimento. Rivelatosi illusorio il lusso di un attacco senza vittime da 10 mila metri d’altezza, le truppe americane sono ora a un punto morto, strette dietro alle barricate, limitate agli attacchi aerei o a poche missioni via terra superprotette, ma sempre e comunque con perdite umane quasi giornaliere. In un sondaggio dello scorso febbraio risultava che il 72% dei soldati statunitensi in Iraq riteneva che ci si dovesse ritirare entro l’anno; fra questi, il 29% pensava che lo si dovesse fare «subito». Soltanto meno di un quarto – il 23 % – appoggiava la posizione ufficiale, reiterata dal Presidente e dal grosso dell’estabilishment locale, che gli Stati uniti devono «rimanere finché è necessario». I riservisti sono ormai così esauriti che il Pentagono, sempre più costretto ad affidarsi ai mercenari disponibili sulla piazza, ha annunciato un esonero sulle fedine penali in caso di arruolamento.
Non che la liberazione dell’ Iraq sia a portata di mano, poiché all’indebolirsi dell’occupazione militare si accompagna l’intensificarsi di quelle tensioni interreligiose sulle quali si appoggia ormai il suo prolungarsi. Attacchi mortali di sunniti contro sciiti e di sciiti contro i sunniti sono ormai quotidiani, con tragiche perdite per entrambe le comunità. Principale responsabile del rovinoso precipitare in un conflitto interno, di pari passo con la lotta patriottica contro lo straniero, ricade sul clero sciita – soprattutto su Ali Sistani – che si è fatto coinvolgere dai conquistatori del paese, esponendo la sua comunità al rischio perpetuo di ritorsioni da parte della resistenza fintanto che i comuni credenti seguiranno le direttive dei loro capi spirituali. I serbatoi di sentimentalismi profusi sulla collusione di Sistani hanno persino portato alla richiesta da parte di Thomas Friedman – il quale, dal suo pulpito settimanale sul New York Times, non è certo fra i più timidi campioni di guerra – che gli venisse assegnato il premio Nobel per la pace.
Se la leadership sciita, e Sistani in particolare, avesse detto agli americani di fare le valigie nella primavera 2004, quando sia sunniti che sciiti insorsero contro l’occupazione, l’Iraq adesso sarebbe adesso un paese libero, con qualche ragionevole prospettiva di armonia interna fondata sulla lotta comune contro l’invasore. Invece Sistani e la sua cerchia hanno fatto causa comune con gli americani, per stroncare la rivolta dell’Armata mahdista di Moqtada as -Sadr nel Sud e la resistenza sunnita a nord e ad ovest del paese. Lo hanno fatto con l’obiettivo di prendere il potere a Baghdad sotto la protezione statunitense, costruendo un regime confessionale fondato sulla preponderanza demografica e sulle armi straniere. I progenitori di questo disordine ne stanno ora approfittando, usandolo come pretesto per prolungare l’invasione del paese, con colpi bassi contro la classe politica sunnita, in modo da perorare la permanenza americana. Come se l’occupazione militare, che ha scatenato questa catastrofe, ne fosse il rimedio piuttosto che la fonte.
La realtà è l’esatto opposto. E c’è soltanto un modo per fermare questa spirale di violenza: la via respinta da Sistani nel 2004, e ora ripresa da Moqtada – un accordo nazionale fra leader sunniti e sciiti, con i guerriglieri delle province e i miliziani delle città, per assicurare l’espulsione di tutte le forze d’occupazione nel paese. I corpi di spedizione americani e britannici non durerebbero un mese in Iraq, se il grosso degli sciiti seguisse l’esempio dei loro compatrioti.
Anzi, basterebbe un voto del parlamento fantoccio a favore del ritiro immediato delle truppe straniere per rendere d’un tratto insonstenibile la posizione di Londra e Washington, e anche l’Iran finirebbe con lo spingere in tale direzione. Certo, vista la più recente storia dell’Iraq, continuerebbero ad esserci gravi tensioni interne fra le due principali comunità religiose; per non parlare del recente ruolo dei kurdi come fidi mercenari dell’invasore. Ma finché il dilagante veleno dell’intrusione occidentale non verrà espulso, non c’è cura per queste ferite. Né per quelle passate, né per le presenti.
traduzione di Annalena Di Giovanni