La moglie di Scalfari

Che la discussione intorno ai referendum sociali – in particolare a quello sull’articolo 18 – registri toni accesi non sorprende. La materia è di quelle che coinvolgono passioni, scelte di fondo, anche identità. Ma questo non dovrebbe mai far perdere di vista il limite del rispetto reciproco, varcato il quale la migliore delle ragioni si converte inesorabilmente in torto. E’ quanto è accaduto, a mio giudizio, a Eugenio Scalfari nell’articolo di fondo apparso sulla *Repubblica *di domenica scorsa. Dispiace che uno dei decani del giornalismo italiano e per di più un sincero democratico si lasci andare a esternazioni che, per il tono usato, fanno torto alla sua autorevolezza.
Introducendo la sua critica all’iniziativa referendaria sull’art. 18, Scalfari arriva a insinuare che «esiste da tempo una consonanza oggettiva (o anche soggettiva)» tra Berlusconi e Bertinotti. In altre parole, il segretario di Rifondazione *fingerebbe* di dirigere una forza politica avversa al governo di centrodestra, e perseguirebbe in realtà una strategia segretamente concordata con il presidente del Consiglio: come altrimenti intendere l’idea di una «consonanza soggettiva»? Altro che “ermeneutica del sospetto”! Ma davvero c’è bisogno di simili argomenti per sostenere le proprie riflessioni? E come mai uno che si è sempre orgogliosamente definito liberale fa propria una tecnica di lotta politica – l’insinuazione, la diffamazione dell’avversario che sfuma nella calunnia – che i liberali considerano, a torto o a ragione, tipica della Terza Internazionale?
Sempre su questo terreno, Scalfari aggiunge che Bertinotti e Berlusconi «si intendono a perfezione dal 1994 in poi perché l’uno è l’alibi dell’altro». E fa riferimento alla crisi del governo Prodi (1998), che naturalmente presenta come effetto di una scelta irresponsabile di Rifondazione. Il meno che si possa dire è che il fondatore della “Repubblica” ha la memoria corta. Ha dimenticato che nel ’94 Rifondazione era alleata ai progressisti e che la vittoria elettorale del Cavaliere fu la conseguenza della decisione dei centristi di presentarsi da soli alle elezioni. Ha dimenticato anche che due anni dopo l’Ulivo vince grazie all’accordo con Rifondazione e che nel ’98 l’esperienza del governo Prodi si interrompe a causa della difesa integralistica, da parte dell’esecutivo, di quel Patto di stabilità che lo stesso presidente della Commissione europea avrebbe di recente ribattezzato «Patto di stupidità». A questo riguardo, Scalfari non farebbe male a riflettere sul fatto che per salvare il governo Prodi sarebbe bastato quell’intervento sulle pensioni minime che si è preferito lasciare all’iniziativa demagogica di Berlusconi, e che oggi – dopo che i buoi hanno già abbandonato la proverbiale stalla – il centrosinistra giudica inadeguato, considerando insufficiente la platea dei pensionati ai quali è stato corrisposto. Quanto alle ultime elezioni, Scalfari non può non sapere che, nella speranza di giungere a un accordo elettorale con l’Ulivo, Rifondazione ha rinunciato unilateralmente a presentarsi nei collegi uninominali della Camera e che la ricerca di un’intesa è stata vanificata dal rifiuto delle forze del centrosinistra di rinunciare alla vergogna delle liste civetta. Se volessimo poi affrontare la questione degli aiuti diretti o indiretti, deliberati o inconsapevoli forniti a Berlusconi da quelli che dovrebbero combatterlo, il discorso sarebbe ben diverso da come Scalfari pretende. Chi ha rilegittimato Berlusconi nella Bicamerale? Chi – essendo alla guida del governo – ha sistematicamente omesso di affrontare la questione del conflitto di interessi? E chi ha puntato tutto su una politica di privatizzazioni che ha spianato la strada alla destra, se non altro perché ha fatto sì che le differenze tra destra e sinistra sfumassero sino a dileguare?

Ma lasciamo stare inutili polemiche e veniamo al merito del referendum sull’art. 18. Non diversamente da altri fieri oppositori dell’iniziativa referendaria tra cui D’Alema e Cofferati, Scalfari auspica che una iniziativa legislativa scongiuri la celebrazione del referendum. E scrive di ritenere «socialmente necessaria» l’approvazione di «una legge che colmi i vuoti inaccettabili nelle tutele e nei diritti di tutti i lavoratori». Bene. Per parte nostra anche noi saremmo ben lieti se qualcuno riuscisse a convincere Berlusconi a votare una legge che estenda le tutele previste dall’art. 18. Ma quanto è realistica questa prospettiva, data l’attuale composizione del Parlamento e considerata anche la scarsa omogeneità delle posizioni all’interno del centrosinistra? Ad ogni modo, resta singolare la contraddizione di un ragionamento che da una parte riconosce le ragioni politiche del referendum (la necessità di estendere a tutti i lavoratori le garanzie contro licenziamenti privi di «giusta causa»), dall’altra rifiuta l’unica strada oggi realisticamente in grado di farle vincere.
Scalfari liquida come una «buffonata» la proposta del referendum, avanzata da Rifondazione, dai Verdi, da una parte della sinistra Ds, dalla Fiom e dal sindacalismo di base. E richiama, a sostegno del proprio giudizio, la battuta di D’Alema secondo cui l’estensione dell’art. 18 servirebbe a reintegrare nel lavoro la moglie licenziata per dissapori privati dal marito, suo datore di lavoro in una microimpresa famigliare. A parte il fatto che non si vede lo scandalo di una simile eventualità (perché mai dovrebbe essere consentito al marito di licenziare impunemente la dipendente-moglie per rivalersi di ragioni del tutto indipendenti dal lavoro?), battuta per battuta si può replicare a Scalfari (e a D’Alema) che è davvero difficile capire perché mai sia giusto impedire i licenziamenti immotivati in aziende con 16 dipendenti, mentre sarebbe sbagliato dove ci sono soltanto 14 lavoratori.
Passando alle questioni politiche sottese all’iniziativa referendaria, Scalfari sostiene che il referendum sull’art. 18 «ha un solo bersaglio e cioè Sergio Cofferati». Qui non siamo solo al processo alle intenzioni, ma al diabolico rovesciamento delle ragioni in campo. Perché Scalfari non domanda piuttosto all’ex segretario della Cgil come mai egli si schieri contro l’estensione universalistica di quell’art. 18, in difesa del quale non ha esitato a mobilitare la propria organizzazione in una grande lotta sindacale e politica la scorsa primavera? E perché mai l’elogio di Cofferati – che anche noi consideriamo una grande risorsa per la sinistra di questo paese e con le cui posizioni ci troviamo oggi spesso in larga misura concordi – omette di far presente che egli ha cambiato idea su molte e non marginali questioni (la guerra, definita ancora ieri una «contingente necessità»; i movimenti, guardati ancora nei giorni di Genova, nel luglio del 2001, con malcelata diffidenza; lo stesso conflitto sociale, esorcizzato con ogni cura negli anni della concertazione), sposando tesi più prossime a quelle di Rifondazione che alle posizioni sostenute dall’attuale dirigenza dei Ds, partito al quale Cofferati appartiene?

Infine, un’ultima questione, solo in apparenza puramente metodologica. Ho fatto riferimento, in apertura, alla discutibile scelta di aggredire il proprio interlocutore polemico con l’arma dell’insinuazione. Mi chiedo che cosa motivi, alla radice, una scelta del genere da parte di un osservatore esperto come Scalfari. Mi pare non basti il semplice – e ovviamente del tutto legittimo – dissenso politico. Non basta ritenere sbagliate e persino pericolose le idee dell’avversario. No, ci vuol altro. Ci vuole precisamente il proposito di impedire che queste idee abbiano corso, siano conosciute e valutate nel merito. Ci vuole – spiace dirlo – un che di intollerante nei confronti di una forza politica alla quale si tende a negare persino il diritto di esistere come soggetto autonomo. Per questo ci si precipita nel dileggio e nella caricatura. Domando: è così che costruiremo l’unità delle opposizioni di qui alle prossime scadenze elettorali?