La Mitsubishi riscrive la storia: “Non ci furono i lavori forzati”

I deportati cinesi usati come schiavi nella Seconda guerra mondiale non hanno diritto a scuse o risarcimenti perché quella del Giappone in Cina non fu un´invasione ma una “guerra di autodifesa”. È la clamorosa tesi della Mitsubishi, una delle più grandi multinazionali di Tokyo, un colosso mondiale che spazia dall´automobile all´energia, dalla chimica all´edilizia. Il “revisionismo” della Mitsubishi domina in Giappone l´apertura di un processo storico: i sopravvissuti e gli eredi dei deportati attendono ancora giustizia, da sessant´anni. La sfida della multinazionale – che durante la guerra fu uno dei massimi produttori di armamenti del Sol Levante – conferma la vigorosa rinascita del nazionalismo nipponico e rilancia la tensione politica con Pechino.
L´uso di manodopera cinese e coreana costretta ai lavori forzati ebbe una escalation a partire dal 1939. La grande industria giapponese era impegnata nello sforzo della produzione bellica, ma la manodopera nazionale cominciava a scarseggiare per la mobilitazione di massa nelle forze armate che occupavano i territori conquistati in Asia. La Mitsubishi ebbe un ruolo di punta nelle deportazioni: fu questa impresa a costruire nei suoi cantieri e poi a utilizzare le diciassette “navi dell´inferno”, bastimenti mercantili addetti al trasporto di prigionieri dalla Cina verso le fabbriche, i cantieri, le miniere giapponesi. La Mitsubishi fu coinvolta anche nella costruzione della linea ferroviaria tra la Birmania e il Siam (oggi la Thailandia) in cui morirono molti lavoratori stranieri. Sempre la Mitsubishi ebbe il controllo diretto di uno dei laboratori più infami dell´occupazione giapponese in Cina: l´unità 731 situata in Manciuria dove si sperimentavano armi chimiche e batteriologiche (in quel campo oltre ai cinesi morirono anche dei militari americani).
Nelle sue miniere, tra i prigionieri cinesi il tasso di mortalità raggiunse punte del 30%. In alcune fabbriche era sistematico lo sfruttamento minorile, in particolare di bambine coreane. Oltre all´alto numero di vittime, un abuso supplementare fu il sequestro dei miseri salari dei detenuti: la Mitsubishi, come altre aziende giapponesi, li versava su “libretti di risparmio patriottico” che non furono restituiti neppure dopo la guerra. Nonostante queste atrocità siano state ampiamente documentate dopo la resa del Giappone nel 1945, in decine di cause giudiziarie negli Stati Uniti, in Cina, in Corea e nello stesso Giappone, nel dopoguerra i grandi gruppi del capitalismo nipponico si videro addirittura versare delle indennità dal governo di Tokyo. Nel 1946, ben 35 imprese inclusa la Mitsubishi ottennero dalle casse dello Stato 56 milioni di yen (l´equivalente di 560 milioni di dollari di oggi) per i “danni” subiti durante il conflitto.
Una beffa di segno opposto ebbe come vittima Liu Lianren, un cinese rapito dalla sua regione originaria dello Shandong e costretto ai lavori forzati in una miniera dell´isola giapponese di Hokkaido. Poco prima che finisse la guerra Liu era riuscito a fuggire e si era rifugiato sulle montagne di Hokkaido dove rimase nascosto fino al 1958. Quando emerse da una caverna nel febbraio del ‘58, le autorità locali lo incriminarono come immigrato clandestino. Liu Lianren è morto, ma suo figlio si è costituito parte civile insieme ad altri parenti delle vittime cinesi e coreane. Il processo contro la Mitsubishi si è finalmente aperto presso la corte distrettuale di Fukukoa, che dovrebbe emettere la sua sentenza entro il 29 marzo. È in questo tribunale che è scoppiato il “caso” della difesa. I legali della Mitsubishi hanno presentato una memoria difensiva che non ha precedenti per l´audacia revisionista. Anche se il Giappone ha sempre mostrato reticenza nel fare i conti con le sue responsabilità nella Seconda guerra mondiale (per occultare le atrocità commesse sono stati perfino falsificati ex post i certificati di decesso dei prigionieri) mai prima d´ora un´azienda aveva montato una controffensiva di questa portata. Da un lato gli avvocati esibiscono delle perizie di parte in base alle quali i minatori cinesi “erano nutriti meglio dei loro compagni giapponesi, non lavoravano mai più di otto ore al giorno, e venivano accompagnati fuori dal campo di lavoro per delle vacanze”. D´altro lato la Mitsubishi tenta di riscrivere la storia, dipingendo l´invasione delle truppe giapponesi in Cina come una “guerra di autodifesa”. «Sarebbe un errore – si legge nel lungo memoriale della difesa – giudicare il passato basandosi sui luoghi comuni di oggi. Non spetta a questa corte giudicare se fu una guerra di aggressione o no. Concedere dei risarcimenti avrebbe delle conseguenze che dureranno per i prossimi cinquanta o cento anni. Esagerando le nostre responsabilità, si finirebbe col caricare sulle future generazioni giapponesi un peso di colpevolezza sbagliato». L´argomentazione dei legali getta inoltre il discredito sui processi organizzati dagli americani a Tokyo nel 1945 (la Norimberga giapponese) contro i dirigenti dell´esercito imperiale accusati di crimini di guerra, descrivendoli come un tipico caso di prevaricazione del vincitore.
L´autodifesa della Mitsubishi conferma un generale cambiamento di atmosfera. Coincide con la scelta del premier giapponese Junichiro Koizumi di sfidare le ire della Cina e della Corea recandosi ripetutamente al tempio shintoista di Tokyo dove si rende omaggio alla memoria di tutti i giapponesi caduti, inclusi i generali condannati per crimini di guerra. Dietro Koizumi altri membri del suo partito liberaldemocratico hanno posizioni ancora più oltranziste. Il ministro Morioka Masahiro ha contestato apertamente la legittimità del processo di Tokyo del 1945, un passo che finora nessun uomo di governo aveva osato. Gli umori revanscisti della classe politica e il nazionalismo dell´establishment capitalistico sono collegati. Ben 20 delle 35 grandi imprese giapponesi che usarono schiavi durante la guerra sono tuttora protagoniste dell´economia nipponica. La Mitsubishi finanzia e promuove note associazioni dell´estrema destra che pubblicano i nuovi manuali scolastici revisionisti, dove l´espansionismo in Asia degli anni Trenta viene giustificato come una “guerra di liberazione dall´uomo bianco”.