La missione e le “regole politiche”

Sorte bizzarra quella della missione internazionale di pace in Libano: tanto invocata e acclamata finché infuriavano le bombe quanto circondata da dubbi, cautele e distinguo un attimo dopo l’entrata in vigore del cessate il fuoco. Per spiegare l’improvvisa prudenza sono state messe in campo argomentazioni di vario tipo. Quasi tutte dotate di qualche fondamento. Nessuna tale da sconsigliare davvero l’invio del contingente Onu.
E’ vero, la tregua è fragile e la tentazione di sfruttare la pausa per riprendere fiato e tornare a scannarsi è diffusa in entrambi i campi. Ragione di più per mettere da parte le esitazioni e procedere rapidamente per evitare che la tregua, da fragile, diventi inesistente: far partire i caschi blu il prima possibile.

Certo, le prime reazioni europee, come segnalava ieri sul “manifesto” Rossana Rossanda, sono state poco confortanti. Hanno sembrato prevalere il calcolo e miope, la misurazione, bilancino alla mano, dei costi e dei benefici. Non che sia una novità: senza l’ignavia europea, l’unilateralismo di Bush e Blair avrebbe quanto meno faticato assai di più a imporsi. Anche questo, però, dovrebbe essere solo un ulteriore motivo per sostenere l’iniziativa forte del governo italiano, che stavolta ha marciato in direzione opposta a quella delle altre nazioni europee. Se la riunione di oggi a Bruxelles dei ministri degli esteri europei arriverà a sbloccare la situazione sarà in buona misura merito della determinazione del governo italiano. Fa piacere che alla fine se ne sia accorto persino Gianfranco Fini.

Il nodo delle “regole di ingaggio”, poi, ha occupato in pianta stabile il dibattito delle ultime settimane: sui giornali e nei partiti, nelle altolocate sedi internazionali e nelle chiacchiere da serata estiva tra amici. Figurarsi se quelle regole non hanno tutta la loro effettiva importanza. Non paragonabile, tuttavia, alle “regole politiche” che governeranno la missione e che sono fortunatamente chiarissime. Non si va a combattere contro nessuno, ma a evitare, possibilmente, che le parti in causa tornino a combattersi e a risolvere i contenziosi a suon di bombe e missili Katiuscia. Più che la puntigliosa disamina su quando e quanto le truppe Onu avranno il diritto di aprire il fuoco, sarà quell’ispirazione politica a regolare il comportamento dei caschi blu a sud del Litani.

E’ un orizzonte politico opposto a quello in direzione del quale si è mosso per cinque anni il governo della Cdl. Si può capire che i capi della destra ingoino malvolentieri la pillola, storcano il naso, accampino obiezioni. Se alla fine sosterranno la missione non lo faranno per spontanea convinzione ma per calcolo, per non essere tagliati fuori da un eventuale successo della diplomazia italiana. Fosse per loro, scommetterebbero assai più volentieri sul fallimento della missione e del governo Prodi.

Ha ragione il vicepremier Rutelli: sarebbe opportuno che una missione così delicata godesse del consenso anche dell’opposizione. Ma di qui a considerare imprescindibile quel sostegno ce ne passa. Se la posta in gioco è, come è, non una semplice modifica ma una netta inversione di rotta rispetto alle politiche del governo Berlusconi suona poco opportuno condizionare la sterzata al placet dello stesso Berlusconi. O meglio suonerebbe strano se le abituali tortuosità della politica italiana non autorizzassero il sospetto che, dietro l’austera invocazione dell’unità nazionale, si nasconda solo l’obiettivo di evitare una eccessiva discontinuità col passato in politica estera. Faccenda assai meno nobile.

Ha ragione anche Umberto Bossi: la missione in Libano costerà parecchio. E’ un buon motivo, anche se non certo l’unico, per levare quanto prima le tende dall’Afghanistan. Sarà difficile trovare qualcuno pronto a sostenere che la guerra contro i talebani sia più importante, ai fini della pace nel mondo, del primo tentativo serio di affrontare il conflitto in Medio oriente. Quello che più di ogni altro è da decenni generatore continuo di instabilità e lutti.