Ma ora la posta in gioco riguarda le regole
E’ ufficiale: lassù qualcuno non mi ama. E ha fatto di tutto per impedirmi di partecipare al concorso per la nomina del nuovo Procuratore nazionale antimafia. Trascinato mio malgrado in una viscida querelle, non mi è facile intervenire. Ma poiché sono convinto che non si tratta di questioni personali, ma di ben altro, provo a farlo. Con tutti in rischi che la scelta comporta.
Punto di partenza della riflessione non può che essere il nuovo ordinamento giudiziario. Chiunque abbia occhi per vedere sa che vero obiettivo della controriforma non è la giustizia ma sono i giudici: quelli colpevoli di aver fatto il loro dovere non solo verso i deboli e gli emarginati, ma anche verso le deviazioni del potere, perciò da sottoporre a controllo ad opera di un potere politico che per se stesso di controlli non ne accetta.
Ecco quindi che il nuovo ordinamento traccia un percorso ad ostacoli per chi voglia accertare la verità senza soggezioni diverse dalla legge: reclutamento e progressione in carriera congegnati in modo da favorire chi è “omogeneo”; svuotamento dei poteri del Csm con conseguente indebolimento della sua funzione di tutela dell’indipendenza della magistratura; esercizio dell’azione penale riservato ai soli Procuratori della Repubblica, veri “mandarini” della giustizia; previsione di forme, indirette ma incisive, di controllo politico del Governo sull’attività giudiziaria; predisposizione di una “autostrada” che inesorabilmente porterà alla separazione delle carriere: tutto “congiura” – nella controriforma – perché lo stigma del magistrato modello sia il conformismo, nemico giurato della rigorosa ( e spesso scomoda) ricerca della verità.
Sono convinto – immodestamente, lo confesso – che il cosiddetto “caso Caselli” vada proiettato su questo scenario più vasto, nel senso che l’emendamento Bobbio (da costui pubblicamente ricollegato all’obiettivo specifico di impedirmi di concorrere alla carica di Procuratore nazionale antimafia) è un segmento del tentativo di “sterilizzare” l’indipendenza della magistratura che caratterizza la controriforma. Prima dell’emendamento c’era stato addirittura un decreto legge. Con il decreto e con l’emendamento si sono poi intrecciate varie iniziative, tutte finalizzate ad influire pesantemente sul regolare svolgimento dei concorsi banditi dal Csm, col rischio non solo di viziare la procedura ma anche di mettere a repentaglio la serenità del relativo giudizio.
Con un “volume di fuoco” senza precedenti nella storia della Repubblica, si sono – in corso d’opera – più volte sovvertite le regole stabilite. I “garantisti” come Giuliano Pisapia dovrebbero – io credo – prima di tutto inorridire per questo. E poi provare a chiedersi perché mai vi sia stato e vi sia tanto accanimento da arrivare al punto di inventarsi decreti legge, emendamenti “contra personam” e via bombardando… Evidentemente la “vittima” designata di questa forsennata campagna non gode delle simpatie di coloro che hanno votato la controriforma dell’ordinamento giudiziario.
Difficile pensare che tale antipatia sia ricollegabile alle centinaia di ergastoli e all’infinità di anni di reclusione che la procura di Palermo diretta da Caselli (che ha semplicemente operato, dopo le stragi, com’era dovere di qualunque magistrato: nessun “merito” da rivendicare, quindi, se non il normale adempimento dei propri compiti istituzionali) ha contribuito a far infliggere ai mafiosi dell’ala militare di Cosa nostra.
Oppure ai 10.000 miliardi di vecchie lire che rappresentano l’ammontare complessivo dei beni sequestrati ai mafiosi dal 1993 al 1999. Sono risultati, questi, che non interessano certi commentatori. Quel che non si perdona, invece, è il rigore con cui quella Procura – nel rispetto delle regole – è andata oltre l’ala militare. Con il risultato che numerose sentenze, alcune definitivamente confermate dalla Cassazione, hanno (per la prima volta con tanta ampiezza e precisione) univocamente dimostrato la sussistenza di fatti gravissimi a carico di soggetti appartenenti alla borghesia politica, imprenditoriale e professionale (settori che da sempre, secondo le analisi più accreditate, hanno avuto un ruolo centrale nella storia della mafia).
Fatti, non teoremi. Fatti non inventati ma realmente accaduti (come riconoscono tutte, proprio tutte, le motivazioni delle sentenze, quale che sia il loro dispositivo). Fatti che era obbligatorio perseguire e portare a giudizio, se la legge (ne sono ancora convinto, anche se mi costa tanti guai…) deve essere uguale per tutti. Fatti che avrebbero potuto innescare concreti percorsi di “bonifica politico-morale”, prosciugando finalmente l’acqua in cui nuota il pescecane mafioso.
Invece, pur di scongiurare il salto qualitativo nell’azione di accertamento dei legami e delle collusioni con Cosa Nostra, c’è chi ha preferito una strategia rinunciataria, articolata in particolare sull’accusa a pubblici ministeri e giudici di costruire teoremi per ragioni politiche o, più brutalmente, di essere “comunisti” o “toghe rosse”.
Di qui la celebrazione di un vero e proprio “processo” alla stagione che ha seguito le stragi del ’92: con tanto di commentatori più o meno autorevoli pronti a pronunziare verdetti di presunto fallimento, deliberatamente ignorando i risultati investigativi e processuali ottenuti ed anzi ricorrendo ad un massiccio stravolgimento della verità o alla sua “cancellazione” (leggere le sentenze e partire da questi dati di fatto è ormai un lusso per pochissimi…).
E’ troppo ipotizzare che la verità e certa politica siano non perfettamente compatibili? Che autoassolvendosi in perpetuo (o addirittura pretendendo di esser sottratta al controllo di legalità) certa politica voglia sfumare la linea di confine fra lecito ed illecito, fra morale ed immorale? E’ troppo presuntuoso (magari anche un po’ arrogante…) ipotizzare che a forza di regolari beatificazioni di imputati, ancorché responsabili – a livello penale o politico-morale – di fatti gravissimi, e di altrettanto regolari aggressioni ai magistrati che non si decidono a chinare la testa, tutto questo possa poi avere uno sviluppo “coerente” in controriforme ed emendamenti “contra personam”? E’ azzardato ipotizzare che mi si voglia far pagare la colpa di essere stato coerente con i miei doveri, non disponibile ad aggiustamenti o compromessi? Non so se questa coerenza sia assimilabile al “giustizialismo”, ma se così fosse sarei un “giustizialista” orgoglioso di esserlo stato. Comunque sia, la posta in gioco riguarda le regole. Le persone (e le legittime preferenze di ciascuno per questo o quel candidato) vengono in secondo piano. Salvo che non si voglia fare come gli struzzi…