La marcia su Washington

Se la guerra è persa, in Iraq e in Afghanistan, hanno avuto ragione quelli che, più forti dei generali, sono sfilati ieri per le strade di Washington. Al National Mall, il grande parco cittadino, si sono radunati migliaia di manifestanti per protestare contro la nuova strategia di George W. Bush e la sua ultima parola d’ordine, «surge», che sta a indicare l’incremento delle truppe. Surge e non escalation per non evocare la disfatta di ieri (Vietnam) e di oggi. «Surge is a lie» dicevano i cartelli innalzati dalla folla, le bugie del presidente dimezzato hanno fatto da sfondo alla sfilata verso il Capitol Hill.
La novità è che l’America della pace questa volta è maggioranza e «l’altra» America siede alla Casa bianca con il suo lessico usurato che diventa parodia – dopo i Rumsfeld e i Cheney – in bocca a Condy, la signora «combatti e vinci».
La politica ha preso il sopravvento nella controffensiva di Washington con il suo popolo inneggiante e fantasioso («Clean water speaks than bombs», l’acqua pulita ha voce più forte delle bombe) sotto il segno di Nancy Pelosi, speaker anti-war della Camera, che ha inviato al National Mall i suoi ambasciatori. Non solo Susan Sarandon, Jesse Jackson, Tim Robbins, Danny Glover, Sean Penn, Dennis Kucinich, le stelle fisse della sinistra Usa, ma anche i rappresentanti del Congresso che si oppongono all’invio di quei 21.500 soldatini, pianti in anticipo dai parenti dei marines accorsi da tutti gli States.
Ammessi all’incontro degli oppositori di Bush anche un gruppo di militari in servizio attivo che però si sono spogliati dell’uniforme e hanno parlato a «titolo personale» e non a nome dell’esercito.
L’action-movie democratico di Washington – era presente anche Kim Gandy, presidente dell’Organizzazione nazionale delle donne – è stato simbolo dell’inversione di tendenza iniziata con la sconfitta di Bush alle elezioni di medio termine nel novembre 2006 e si è esteso oltre alla piazza nelle strade virtuali del paese. Il sito di «United for Peace and Justice», che ha organizzato il corteo, infatti, ha collezionato i contatti di cinque milioni di persone, aderenti idealmente alla manifestazione.
«Non più soldi per la guerra», «Stop alle uccisioni in Iraq», «L’America vuole che cresca la pace… non le truppe». Un remake in versione allegra dei 300.000 che il 24 settembre 2005 assediarono l’obelisco del Washington Monument con un Bush ben saldo al posto di comando e ora bocciato (tre giorni fa) dalla commissione esteri del Senato.
Fra una settimana l’intero Senato con più gusto, dopo il successo della sfilata pacifista, presenterà una risoluzione contro l’invio dei militari a Baghdad. E anche se la risoluzione non sarà «vincolante», la marea di donne e uomini che hanno attraversato la capitale peserà sul comandante in capo, sceso così tanto nel gradimento degli americani da resuscitare addirittura la «Hanoi Jane». Jane Fonda ieri ha preso la parola alla sua prima manifestazione antiguerra dopo 34 anni e ha detto: «Il silenzio non è più un’opzione». I migliaia di Capitol Hill lo hanno gridato anche ai neo-eletti democratici. Basta con la paura del dopo-11 settembre. Siamo tutti un-american.