Una vera e propria cittadella fortificata, più grande dello stato del Vaticano e «più sicura del Pentagono» sta sorgendo giorno dopo giorno a Baghdad, sulle rive del Tigri, nella «zona verde» dove si trovano i palazzi di Saddam Hussein, grazie al lavoro di oltre 900 operai ed edili provenienti dai più poveri paesi dell’Asia. Si tratta della nuova ambasciata Usa da un miliardo di dollari, anche se il Congresso per il momento ha «sganciato» solamente 592 milioni, la più grande e la più fortificata del mondo che si estende su oltre 42 ettari nell’area dove una volta sorgevano gli uffici del partito Baath. Per avere un’idea della sua estensione l’area è pari a circa ottanta campi di calcio o a sei volte quella del quartier generale delle Nazioni Unite a New York. I lavori sono avvolti dal massimo riserbo ma secondo un rapporto della Commissione Esteri del Senato Usa il complesso sarà composto da 21 edifici: Due di questi saranno destinati all’ambasciatore americano e al suo vice mentre gli altri agli uffici, ai dipendenti e ai servizi. A pieno regime nel giugno del 2007, vi lavoreranno 8.000 persone e diventerà il cervello dell’amministrazione coloniale dell’Iraq, appena celato dietro alle facce locali dei vari leader iracheni impegnati a dividersi le briciole che cadono dalla tavola degli occupanti.
Il fatto che la nuova ambasciata sorgerà praticamente accanto al palazzo di Saddam, che supererà per grandezza, maestosità e funzionalità – con dimensioni pari a tre Millenium Dome – e agli edifici dove si riuniscono il parlamento e il governo iracheno è un chiaro messaggio al popolo iracheno, e al mondo, su chi realmente governa il paese e sulle intenzioni di Washington di continuare ad occupare l’Iraq per anni e anni. La cittadella imperiale sarà praticamente inattaccabile da terra e dal cielo, circondata da mura spesse cinque metri, con sei ultrasicure porte di entrata e di uscita e una settima di emergenza (se le cose si dovessero mettere male) verso l’aeroporto), e difesa da batterie di missili terra aria e terra terra e da una grande caserma dei marines. L’aspetto che più colpisce della nuova ambasciata è il suo totale isolamento dal resto della capitale irachena. A differenza dei vecchi palazzi coloniali britannici la cittadella Usa sarà come un’astronave atterrata nel centro di Baghdad completamente autosufficiente: avrà i propri pozzi per il rifornimento idrico, una centrale elettrica, un sistema di raccolta e distruzione delle immondizie, un proprio sistema fognario, la più grande piscina della città, ristoranti, tavole calde, cinema, palestre e un sistema di comunicazioni interno. Baghdad sta andando in rovina ma nelle basi Usa – in questa come nelle altre 14 sparse in tutto l’Iraq – la vita continua a scorrere tra i mille comfort di una tranquilla provincia americana. Una provincia governata dalla Bibbia e dal codice militare nella quale ad esempio, a differenza di quanto avviene negli Usa, l’aborto è rigidamente negato.
I soldati dell’impero, del tutto all’oscuro di dove si trovino vedranno così l’Iraq solamente dalle feritoie dei carri armati o dai cannocchiali dei loro fucili. Si tratta di un progetto che ricorda molto da vicino quello della trasformazione dell’esercito Usa in una sorta di «cavalleria mondiale» – sostenuto nei documenti dell’«American Enterprise Institute» – capace di uscire dai suoi fortini, colpire le «forze del male» e poi rientrare nelle cittadelle fortificate. In altri termini la nuova città proibita Usa, già chiamata «il palazzo di Bush», la «madre di tutte le ambasciate» – la megalomania del progetto fa apparire ben poca cosa i palazzi di Saddam – potrebbe essere definita come la più grande pompa di benzina del mondo grazie alla quale gli Usa potranno continuare a dilapidare le risorse del pianeta e ad inquinarne la terra, l’aria e l’acqua. Così come avviene in Iraq dove grazie agli «accordi ineguali» con il governo fantoccio locale, non solo gli Usa si sono impadroniti di questa grande area senza pagare un dinaro, ma hanno imposto l’ extraterritorialità di tutte le loro strutture e l’impunità assoluta per i loro uomini.
La nuova ambasciata, l’unico progetto edile americano in Iraq che al momento rientri nei tempi progettati e nella spesa preventivata, è stato affidato per la gran parte ad una società kuwaitiana la First Kuwaiti Trading (guidata da Wadi al Absi, un cristiano-maronita libanese) e, in misura minore ad altre sei società, cinque delle quali Usa.
La società di Wadi al Abdi, con oltre 7.000 dipendenti in Iraq, è salita più volte agli onori della cronaca per le ricorrenti critiche di vari organismi per i diritti umani, ma anche di semplici contractors e ufficiali americani, relative alle pessime condizioni di vita e di lavoro dei suoi dipendenti trasferiti in massa in Mesopotamia dai più poveri paesi dell’Asia: turni di 12 ore di lavoro per sette giorni la settimana, per 500 dollari al mese, inenarrabili dormitori, mancanza di qualsiasi protezione di sicurezza. Veri e propri schiavi impegnati a costruire le piramidi del nuovo faraone americano.