La «lunga guerra». Sarà con questa espressione che la lotta al terrorismo ingaggiata dagli Stati uniti sarà ricordata dalla storia, quando riuscirà finalmente a diventare passato. Dopo la consacrazione fatta da George Bush nel suo ultimo discorso sullo stato dell’Unione, l’imprimatur finale è venuto dalla Quadrennal Defense Review (QDR). Il documento con cui il Pentagono ogni quattro anni delinea la politica di sicurezza strategica degli Stati uniti, è stato diffuso già la scorsa settimana ma solo ieri è stato consegnato al vaglio del Congresso perché lo discuta insieme all’accluso budget che per il 2007 prevede una spesa militare di 439,3 miliardi di dollari, ai quali bisognerà aggiungere poi le spese per le operazioni in Iraq e in Afghanistan (ufficialmente 120 miliardi di dollari tra il 2006 e il 2007). Più che una «lunga guerra», quella tratteggiata dalla QDR sembra una dimensione mentale, un’ossessione. E infatti compare come l’alfa e l’omega del rapporto che inizia con la frase «Gli Stati uniti sono una nazione impegnata in quella che sarà una lunga guerra» e si chiude con l’affermazione «siamo in un tempo critico della storia di questo grande paese e ci troviamo ad essere sfidati in modi che non ci aspettavamo. Dobbiamo fronteggiare un nemico spietato che intende distruggere il nostro modo di vivere e un futuro incerto riguardo alla sicurezza». Conclusione «dobbiamo prevalere adesso mentre ci prepariamo al futuro». (Corsivo originale).
«Nel quinto anno di questa guerra globale, le idee e le proposte di questo documento vengono fornite come una mappa per il cambiamento, che ci condurrà alla vittoria» scrive il segretario di stato Donald Rumsfeld nella lettera che precede il report. E più di tutto impressiona quanto questa ossessione cancelli il resto del mondo.
Primo rapporto ad essere stilato dal 2001 dopo il fatidico 11 settembre, non sembra scritto quattro anni dopo il crollo delle due torri e un paio di guerre ancora in corso che, aperte come ferite, stanno infettando la convivenza mondiale. La polvere spessa e pesante che tutto invase e tutto ricoprì quando i due grattacieli si afflosciarono al suolo col loro tragico carico di morti, sembra aleggiare ancora nelle menti degli strateghi. O almeno è quello che vogliono far credere, con l’insistere martellante su un’era caratterizzata dall’inaspettato, dall’imprevedibile, dalla sorpresa devastante costantemente in agguato. L’enfasi viene così posta su uno scivolamento inquietante: «da un tempo di pace a un tempo di guerra. Da un tempo di ragionevole prevedibilità a un’era di sorpresa e incertezza. Da minacce ben focalizzate a sfide multiple, complesse. Da minacce degli stati nazione a reti minacciose decentralizzate di nemici non-stati. Da guerre contro nazioni a guerre in paesi con cui non siamo in guerra (ma che danno rifugio ai terroristi). Dal rispondere a una crisi dopo che è iniziata (reattività) alle azioni preventive così che i problemi non diventino crisi (proattività). Dalla risposta alla crisi al modellamento del futuro. Da alleanze statiche a partnership dinamiche». E così via, fino all’inevitabile conclusione: «gli Stati uniti devono essere preparati a condurre questa guerra in molti luoghi contemporaneamente e per molti anni a venire». Altro che ritiro dall’Iraq.
Non si delinea nessuna «rivoluzione strategica» ma la dottrina preventiva viene confermata, rafforzata ed estesa da una strategia militare che troverà gambe nell’ammodernamento del sistema d’arma, nell’ampliamento della libertà d’azione degli Usa e dei loro alleati (variabili e scelti sulla base della missione) i quali dovranno anche farsi carico delle spese.
Ma chi è il nemico? Potenzialmente tutti, nelle sfide non-tradizionali, asimmetriche presentate da questo nuovo secolo: il warfare irregolare (quello condotto da «nemici combattenti» che non appartengono a forze regolari di stati nazione), il «terrorismo catastrofico» che impiega armi di distruzione di massa, ma anche chi minacci di «destabilizzare la capacità degli Stati uniti di mantenere il loro vantaggio qualitativo e di proiettare il loro potere». Insomma chiunque voglia essere più forte militarmente. A questo scopo, il Pentagono svilupperà una vasta panoplia di armi convenzionali, manterrà «un robusto deterrente nucleare», «inizierà a sviluppare la prossima generazione di sistemi missilistici a lungo raggio».
Neanche a dirlo, è l’identikit della Cina che entra perfettamente nella terza categoria di nemici, quelli che rischiano di diventare più potenti. L’allarme strategico, che non è il primo ma per la prima volta viene scritto nella Quadrennal Review, è lanciato esplicitamente: «dei grandi poteri emergenti, la Cina ha il potenziale maggiore per competere militarmente con gli Stati uniti e mettere in campo tecnologie militari destabilizzanti che col tempo potrebbero contrapporsi al tradizionale vantaggio militare Usa». Segue una serie di rilievi sull’aumento della spesa militare cinese che «mette a rischio l’equilibrio militare regionale». Ma sia chiaro a Pechino che Washington mai permetterà che «alcun potere possa dettare i termini della sicurezza regionale e globale» e «se la deterrenza fallirà, gli Usa impediranno a ogni potere ostile di raggiungere i suoi obiettivi strategici e operativi».
Prepariamoci, dunque, perché la guerra sarà davvero «lunga» se la parola viene lasciata solo alle armi, cioè agli Stati uniti.