«La lotta alle rendite non basta contro i privilegi»

Emiliano Brancaccio, docente di Macroeconomia presso l’Università del Sannio e tra i promotori dell’appello degli economisti del 16 luglio, interviene sul tema della cosiddetta “borghesia delle professioni” e la presunta incapacità della sinistra di confrontarsi con essa senza spaventarla o minacciare vendette. Al riguardo il professor Brancaccio ha pochi dubbi.

Da chi è composta questa borghesia?

Quelli che vengono talvolta impropriamente definiti ceto medio o elettori mediani andrebbero più correttamente definiti “price makers”. Si tratta di quel variegato gruppo sociale, fatto di professionisti, imprenditori commerciali e lavoratori autonomi che per le più svariate ragioni sono dotati di un effettivo potere di mercato, e sono pertanto in grado di imporre i loro prezzi sugli altri attori sociali, in primo luogo sui lavoratori subordinati. A causa una atavica, bassa concentrazione dei capitali nazionali, questa sorta di “ceto di mezzo” presenta in Italia una dimensione non trascurabile. Tuttavia si tratta di un variegato sociale non particolarmente esteso. Su di esso mi pare quindi che si stia concentrando un’attenzione spasmodica e ingiustificata.

Come mai tutta questa attenzione verso questa fascia sociale?

La metterei nei seguenti termini. Questa è un’epoca nella quale la politica non riesce ad intervenire sui grandi aggregati macroeconomici: la produzione nazionale, l’occupazione, l’inflazione, il livello dei salari, dei profitti, dei tassi d’interesse. In tutta Europa, e da decenni, sulla gestione di queste fondamentali variabili risulta in effetti difficile riscontrare grandi differenze tra i governi di destra o di sinistra: tutti tendono di fatto a comprimere il bilancio pubblico, a disciplinare maggiormente il lavoro, ad ingabbiare i salari. Alla politica restano pertanto margini di manovra piuttosto risicati: una blanda o più incisiva lotta alle micro-rendite e all’evasione dei piccoli e medi proprietari rappresenta uno degli spazi rimasti, una delle poche leve manovrabili. Ecco dunque che i destinatari di queste misure diventano l’ago della bilancia politica.

Quindi lei sostiene che i ceti di mezzo, i price makers, sono dei “gruppi dominanti”.

Direi che si tratta di gruppi che godono di una posizione di privilegio sociale a causa della sostanziale arretratezza del nostro capitalismo. E che godono di un privilegio politico a causa, come ho detto, della difficoltà di imporre svolte più generali.

E i tassisti?

Di certo escluderei dalla mia classificazione i tassisti. Non nego che qualche tassista possa aver conquistato una invidiabile posizione sociale, ma basta vedere i dati generali per capire che su di essi si è alzato un polverone incomprensibile. Fortunatamente la “bolla gialla” dei taxi alla fine si è alquanto ridimensionata. Ora forse riusciremo ad occuparci meno di tassisti e più di trasporto pubblico e di stato sociale, che mi pare riguardino fasce sociali ben più estese.

Una delle accuse è che ci sarebbe un borghesia spaventata da un governo che vorrebbe vendicarsi contro i ceti sociali dominanti. E’ così oppure c’è dell’altro?

Le misure del governo finalizzate ad eliminare le posizioni di rendita e di privilegio del “ceto di mezzo” dei price makers non mi sembrano in tutta franchezza particolarmente incisive sul piano macroeconomico. Ad ogni modo, tutto ciò che si muove in questa direzione merita effettivamente di esser definito “moderno”. Moderno nel senso che rende più capitalistici i rapporti. Può darsi in tal senso che qualche esponente della borghesia parassitaria possa spaventarsi per simili iniziative. Ma sarebbe ridicolo parlare di una vendetta della sinistra verso i ceti dominanti. Il gigantesco problema di fronte al quale la sinistra si trova è di ben altro tenore. La sinistra deve misurarsi con la sua attuale debolezza politica, e con l’estrema difficoltà di aprire una reale fase dialettica con i veri centri del potere industriale e finanziario. Questa dialettica si può aprire soltanto sui grandi aggregati macroeconomici, a partire dalla spesa pubblica e dai salari. Insomma, il decreto Bersani è stato solo un temporale estivo. Quel che conta è vedere se in futuro possa iniziare a montare la salutare tempesta dei movimenti sociali. L’unica che allo stato dei fatti può dar fiato alla sinistra, e potrebbe indurla ad invocare una revisione degli attuali, pessimi obiettivi di legislatura sul debito pubblico, sull’inflazione programmata, sui salari e sulla disciplina del lavoro.