La lotta a Berlusconi vale il sì a una guerra?

Dopo il crollo del socialismo reale e la fine della guerra fredda con la vittoria dell’occidente, il pacifismo veniva dato per morto. Invece ha iniziato un nuovo percorso, fino a diventare quella che, secondo il New York Times, è la seconda potenza mondiale.
L’avvio del nuovo percorso del pacifismo italiano può essere datato nell’autunno del 1990, quando Pietro Ingrao si alzò alla Camera per dire di no alla guerra. Lo fece in dissenso con il suo stesso partito, affermando il principio per cui nulla giustificava il ricorso alla guerra.

Eppure, tra tutti gli eventi militari che da allora ad oggi hanno percorso il pianeta, quello del 1991 può apparire il più formalmente giustificato. L’Iraq di Saddam Hussein aveva invaso e occupato uno stato sovrano, il Kuwait. Al di là degli enormi interessi petroliferi in ballo, vi era una palese violazione del diritto internazionale. L’Onu aveva autorizzato la guerra, anche se non l’aveva esplicitamente dichiarata. L’attacco all’Iraq del 1991 aveva un obiettivo definito – ripristinare la sovranità del Kuwait – e avveniva con il più vasto consenso internazionale, anche nel mondo arabo. Tuttavia il pacifismo italiano disse di no e fece bene. Prima di tutto perché per la prima volta dopo il 1945 veniva restituita legittimità alla guerra come strumento di risoluzione delle controversie internazionali e l’Italia, partecipando ad essa, metteva in discussione l’articolo 11 della sua Costituzione.

In secondo luogo perché, come il pacifismo aveva previsto, la guerra per il Kuwait non ha ripristinato il diritto ma ha invece scoperchiato il vaso di Pandora della guerra permanente e preventiva e del terrorismo. La situazione mondiale attuale è figlia di quella scelta catastrofica che, in nome della legalità internazionale, ripristinò il più illegale dei mezzi: la guerra.
Dopo di allora le guerre a cui ha partecipato l’Italia sono state tutte illegali, oltre che ingiuste. Siamo andati in Somalia e ancora ricordiamo le foto su Panorama dei somali sottoposti a tortura. Abbiamo bombardato il Kosovo, facendo finta che la Nato fosse l’Onu. Siamo stati coinvolti nella guerra in Iraq e poco prima in quella in Afghanistan.

Il pacifismo italiano, in tutte le sue componenti, non si è mai fatto abbindolare dalla tesi della guerra giusta o umanitaria. Ha colto sì il limite estremo della guerra in Iraq, fondata sul disprezzo dell’Onu e sulla menzogna, ma non per questo ha giustificato altre guerre che hanno goduto di un più ampio consenso e di una maggiore rispettabilità internazionale. Lo stesso ha fatto il pacifismo internazionale. Un mese fa, il Forum Sociale Europeo di Atene si è concluso chiedendo con forza la fine dell’intervento militare occidentale, sia in Iraq che in Afghanistan. In conclusione, il pacifismo in questi anni è stato fermo nel rigore e nella coerenza delle scelte di fondo, conquistando prestigio proprio perché non ha legato le sue scelte all’andamento contingente della politica e all’avvicendarsi dei governi.

Ora tutto questo da noi rischia di essere messo in discussione. Il governo italiano sta trattando con quello Usa un ritiro dall’Iraq che, per quanto effettivo, fa il possibile per differenziarsi da quello spagnolo e per mimetizzare il dissenso con la politica di Bush. Così il governo pare intenzionato a ottenere una benevola benedizione dagli Usa scambiando il ritiro dall’Iraq con una continuità o addirittura un’intensificazione della nostra presenza in Afghanistan. La cosa ha in sé dell’assurdo. Sul piano militare, per gli Usa, Afghanistan e Iraq fanno parte dello stesso scenario di guerra, quello dell’operazione “Enduring Freedom”, cioè della guerra permanente e preventiva. Come ci ricorda Gino Strada, gli occupanti occidentali sono “liberatori” in Afghanistan come in Iraq, e partecipano alle azioni di guerra allo stesso modo. Diverso è solo il contesto delle alleanze. In Afghanistan formalmente c’è la Nato ma non l’Onu come sostengono molti commentatori con superficialità o malafede. Secondo importanti esponenti del centrosinistra, la sola presenza dell’Alleanza atlantica sarebbe sufficiente a permettere all’Italia di superare il primo paragrafo dell’articolo 11 della Costituzione. Il ripudio della guerra, secondo un’interpretazione purtroppo già avallata dal Presidente Ciampi per l’Iraq, sarebbe limitato dal secondo capoverso. Che diventerebbe così più importante del primo. In questo modo l’Italia non ripudierebbe più in assoluto la guerra, ma lascerebbe alle alleanze internazionali il compito di decidere dove e come combattere. Così una guerra diventa più o meno giusta a seconda della vastità degli schieramenti che la sostengono e la questione costituzionale viene ridotta a variante delle alleanze internazionali.

Che la maggioranza del governo di centrosinistra sostenga questa impostazione non stupisce. Alcuni di loro sono gli stessi che hanno fatto la guerra per il Kosovo. Il problema è tutto dal lato del movimento pacifista. Se questo dovesse accettare questo modo di ragionare cancellerebbe la sua indipendenza e le sue ragioni d’essere. Per questo tutte le forze che nel paese e nel parlamento in questi anni si sono battute con rigore contro la guerra, comunque aggettivata, hanno una sola scelta davanti: dire di no al rifinanziamento della missione in Afghanistan. Ecco a questo punto l’obiezione: e Berlusconi? La domanda può essere facilmente rovesciata: la lotta contro Berlusconi vale il sì a una guerra? Dobbiamo entrare nella logica per cui a seconda di chi governa cambia il giudizio del pacifismo sulla guerra? Ci si rende conto del disastro che una tale impostazione produrrebbe nel vivo dei movimenti nel nostro paese? Qui siamo tutti chiamati a rispondere. Berlusconi è al tramonto della sua politica e del suo potere e non può trascinare con sé anche il futuro del movimento pacifista. Si voti quindi in Parlamento, come fece Ingrao nel 1990-91, contro la guerra senza se e senza ma. La democrazia italiana ne trarrà giovamento e questo non potrà che indebolire ulteriormente Berlusconi e la destra.