La «lezione di Ravenna», vent’anni dopo

Fu uno choc. Per il numero delle vittime, tredici, che ne fanno la più grande strage sul lavoro del dopoguerra in Italia. Per il luogo dove avvenne: Ravenna, città ricca, rossa e sindacalizzata. Per le condizioni di lavoro su cui squarciò il velo: ore di fatica nella pancia delle navi, stretti in cunicoli bui e senz’aria a raschiare, saldare, verniciare; assenza delle più elementari norme di sicurezza, dilagante presenza di subappalti e lavoro nero. Per il modo in cui i tredici operai morirono: soffocati e bruciati «come topi», disse monsignor Ersilio Tonini, allora arcivescovo di Ravenna.
Oggi è il ventesimo anniversario della «strage della Mecnavi», dal nome della ditta di manutenzione che allora operava nel porto di Ravenna. Un piccolo incendio a bordo della nave gasiera «Elisabetta Montanari», ormeggiata nel bacino di carenaggio, finì in tragedia. C’erano 18 uomini al lavoro sulla nave la mattina del 13 marzo 1987, alle dipendenze di sei ditte diverse. Qualcuno venne «assunto» post mortem, un particolare rimasto impresso nella memoria di Antonio Pizzinato, allora segretario nazionale della Cgil: «Uno dei ragazzi abitava nello stesso palazzo del sindaco di Ravenna. Verso mezzogiorno qualcuno della Mecnavi suona il campanello, si fa consegnare dalla madre il libretto di lavoro e se ne va senza dirle nulla. I tredici cadaveri erano già tutti stesi sulla banchina del porto». Almeno questo, commenta Pizzinato, dal primo ottobre del 2006 non si potrebbe più fare. «E’ stabilito per legge che il dipendente va assunto un giorno prima che inizi a lavorare». Per Pizzinato il 13 marzo ’87 resta una data bruciante: «Mai come quel giorno ho sentito che il sindacato era al di sotto del suo dovere». La Cgil reagì alla «lezione di Ravenna»: venne da quella strage l’impulso per la commissione d’inchiesta sulla sicurezza nei luoghi di lavoro presieduta nel 1989 da Luciano Lama. Nel 1994 fu approvata la 626, ma è solo di qualche giorno fa l’approvazione della legge delega per il «testo unico». Sulla sicurezza si procede con alti e bassi, conclude Pizzinato, «e ora percepisco un calo di tensione». E’ un bilancio in chiaroscuro anche quello che tira Luigi Folegatti, segretario della Cgil di Ravenna. Rispetto a vent’anni fa nel porto di Ravenna i dispositivi di sicurezza sono migliorati. Ma il lavoro precario è andato alle stelle e questo rende i controlli più difficili. Gli addetti alla manutenzione delle navi, assunti a tempo interminato, sono circa 150, tutti meridionali o rumeni. Ma se arriva una commessa, sia al petrolchimico che nella cantieristica, le ditte assoldano gente nuova, lavoratori autonomi pagati a forfait. La «paga globale» comprende ferie, trasferte, tredicesima e anche gli straordinari. «Così ci si consegna nelle mani delle ditte. La paga è alta, ma i diritti stanno a zero». Il processo di primo grado per la strage di Ravenna finì con una condanna a sette anni per i fratelli Arienti, titolari della Mecnavi. Pena più che dimezzata in appello. La Mecnavi fallì, i fratelli Arienti hanno lasciato il porto di Ravenna, ma sono rimasti nel settore della cantieristica. Il più protervo, Ezio, che a cadaveri ancora caldi dava la colpa alla «fatalità» e voleva convincere i lavoratori che il sindacato «non serve», è stato arrestato lo scorso luglio. Per una frode sui fondi Ue, apprendiamo dalla Camera del lavoro di Ravenna. Oggi Ravenna ricorda le 13 vittime della Mecnavi con un’assemblea pubblica, presenti Epifani, Bonanni e Angeletti. Fresco di stampa, viene presentato Nel buio di una nave, il libro di Rudi Ghedini sui «picchettini» che con stracci, palette, raschietti fanno le manutenzione sulle navi. Picchettini, una parola che abbiamo imparato il 13 marzo 1987.