La lezione dei movimenti

Sul manifesto del 23 luglio è apparso un articolo-documento a firma di vari esponenti dei movimenti romani che in vista delle prossime amministrative al comune di Roma propongono una lista unitaria «dal basso» della sinistra critica, aperta a movimenti e associazioni, nonché ai partiti della sinistra alternativa. In altre sedi (Camera di consultazione) si discute di una lista unitaria per le prossime politiche con le stesse caratteristiche. Il tema è stato opportunamente ripreso (il 2 e 3 agosto) sulle pagine di Liberazione da Piero Sansonetti che discutendo con Franco Ottaviano, pur considerando «serissime» le ragioni che originano queste proposte, sembra vedere nel voto a Bertinotti alle primarie la condizione «oggettiva» per una prospettiva unitaria. È da notare che la proposta di cui parliamo consiste di due momenti: 1. il riconoscimento della necessità di far esprimere in forma diretta, anche nel momento della rappresentanza i movimenti e i soggetti sociali, dunque il programma antiliberista e pacifista che già vive (sia pure embrionalmente) nel conflitto, così superando forme di delega ai partiti e di tatticismo politicista; e 2) la possibilità, su questa base, di determinare nuove forme di aggregazione politico-programmatica ed elettorale nella parte sinistra dello schieramento anti-berlusconiano. Dei due punti, si noti, è il primo (prendere sul serio la democrazia diretta e partecipativa dei movimenti) che determina e consente il secondo (riaggregare la sinistra politica di alternativa), a conferma che l’unità a sinistra, se si fa, si fa sempre solo dal basso, cioè guardando alle indicazioni strategiche che provengono dai movimenti, e non solo ai loro voti. Così che limitarsi a negare il secondo punto ignorando il primo, somiglia troppo al gesto non intelligente di colui che quando il dito indica la luna si ferma a considerare il dito.

Fuor di metafora: ha veramente qualcosa di paradossale e intollerabile l’accusa di «politicismo togliattiano» (uno dei più fastidiosi ritornelli fra quelli in uso presso Rifondazione) che viene rivolta da esponenti di Partito ai compagni di movimento che propongono di far scegliere ad assemblee di base il programma e le candidature; questi ultimi sarebbero «politicisti», e solo perché dal successo di una simile strategia egemonica può anche derivare un positivo «reciclaggio» verso l’unità delle frantumate formazioni politiche della sinistra. Si critichi dunque aspramente (se c’è) la proposta di un’alleanza senza princìpi, fra partiti e solo fra partiti, con i collegi elettorali preliminarmente spartiti in qualche riunione di segreterie; ma si ammetta lealmente che qui si sta discutendo di una proposta diversa, e che dipende anche da Rifondazione se tale proposta rifluirà verso un esito verticista e politicista oppure se sarà messa in grado di sviluppare tutte le sue potenzialità di innovazione.

D’altra parte qual è l’alternativa possibile alla proposta avanzata dal movimento? Si può «sospendere» finché durano le elezioni il rapporto col movimento, magari lasciandolo andare da solo alla conta elettorale? Ma ciò segnerebbe una rinnovata e catastrofica frattura fra il sociale e il politico, esattamente il contrario di ciò che Rifondazione persegue. Oppure si può pensare di limitarsi ad «accettare» i voti del movimento, attirandoli con qualche candidatura indipendente, ma riservando ai partiti, o a uno solo, la stesura dei programmi, la composizione delle liste e la scelta degli eletti? Di questo, vorrei far notare, fu a suo tempo capace anche il Pci (che peraltro i «patti» di questo tipo li rispettava ferreamente), e forse ne sarebbero oggi capaci perfino i Ds, dato che i voti dei movimenti non ripugnano a nessuno. Ma è solo questo topolino che si vuol far partorire alla montagna del Movimento dei movimenti, del nuovo ciclo di lotte e (vorrei sottolineare questo aspetto) della innovazione anche teorica sul terreno della democrazia partecipativa?

Io concordo (fatti salvi il resto dell’argomentazione e il linguaggio) con l’affermazione di Sentinelli e Smeriglio (il 20 luglio su Liberazione): «Nulla ha a che vedere con i processi di risoggettivazione sociale la scontata e povera `apertura’ delle liste di partito agli indipendenti». E se questo vale sul versante dei movimenti, vale tanto più sull’altro versante, cioè quello dei rapporti politici a sinistra, e in particolare per affrontare il problema (che pure oggi si pone) di dare uno sbocco non equivoco e a sinistra alla crisi dei Ds; è questo un problema che non mi pare possa essere affrontato à la Folena, o con una serie di cooptazioni elettorali ad personam del tutto prive di spessore politico. Oppure, ancora, si pensa che il partito più grosso (ma poi, purtroppo, neppure di tanto…), cioè Rifondazione, offra agli altri settori della sinistra solo la possibilità di aderire e/o di appoggiare? E si può chiedere questo in nome di quella stessa esigenza di unità della sinistra alternativa che però nello stesso momento viene respinta nei fatti?

Come si vede la contraddizione è di palmare evidenza, e tale da rischiare di compromettere anche la candidatura alle primarie di Bertinotti (quale che sia il giudizio politico che se ne dà). Davvero, se questa fosse la scelta di Rifondazione, lo slogan dei post-it assumerebbe un amaro sapore realistico, certo del tutto involontario, essendo il post-it la forma più effimera e inconsistente di partecipazione, quella che non lascia tracce di alcun tipo, che non conta davvero nulla: scrivere in solitudine ciò che si vorrebbe su un foglietto giallo, ma non poter decidere assieme né il programma né i candidati; si pensa di poter contrastare così la feroce e pervasiva natura a-democratica del berlusconismo?

Colpisce il silenzio subalterno delle correnti di minoranza di Rifondazione su questo tema: da una parte sembrerebbe che i compagni dell’area dell’Ernesto facciano coincidere la rivendicazione dell’identità comunista (che rappresenta la verità interna della loro posizione) con il dogma di una presenza identitaria nel momento elettorale (a volte invece la capacità di egemonia di un Partito comunista si esprime nel saper fare un passo indietro, almeno sul terreno delle istituzioni); e dall’altra parte sembrerebbe che i compagni trotzkisti non riescano a tradurre la centralità dei movimenti, da loro sempre proclamata, anche in una modalità di rapporto con le istituzioni che sia coerente con la centralità del movimento e sia anzi capace di farla vivere (e non di «sospenderla») anche nel momento elettorale.

Per chi (come il sottoscritto) è militante di base del Prc, esiste poi un decisivo motivo in più per sostenere convintamente la proposta dei movimenti romani per quanto riguarda le comunali e l’ipotesi di lista unitaria e «dal basso» alle politiche: questa è l’occasione, forse l’ultima, per sperare di contrastare la terribile deriva istituzionalista e burocratica che sta distruggendo il Partito. E poiché tali processi degenerativi derivano in buona sostanza dalla sproporzione fra la debolezza del Partito di massa e la forza dei poteri dei compagni istituzionali (e dei loro accessori burocratici nel Partito), ecco che Rifondazione non potrebbe che giovarsi dal trovarsi liberata dei compiti della rappresentanza e restituita finalmente al proprio specifico compito: questo consiste, mi pare, non nella collezione di seggi e assessorati (o sottosegretariati) ma nella costruzione di un Partito comunista di massa e nella ricerca di nuove vie per la rivoluzione comunista in Occidente. Se non è troppo tardi.