LA GUERRA SOSPESA

Intervista di Luciana Castellina a Pietro Ingrao.

CASTELLINA- La guerra, almeno il conflitto attuale, sembra per ora conclusa. E a termine mi sembra sia arrivato anche l unanimismo con cui l’Ulivo aveva condannato l aggressione all’lraq. Un unanimismo subito incrinato dall’ incredibile voto parlamentare bipartisan sull’invio di militari italiani. Si è già aperto, infatti, un nuovo confronto fra chi si appresta a considerare questa guerra come una triste parentesi, da chiudere al più presto, per poi tornare alla tradizionale unità atlantica (guai a perderla!) e a lavorare tutti assieme alla ricostruzione dell’lraq appena distrutto. (Così anche evitando di esser tagliati fuori dagli appalti e dall’ accesso ai pozzi.) E chi ritiene invece che il dopoguerra sarà solo una continuazione della guerra, per cui – se si vuole realmente arrestare la catena di conflitti che si prospetta (la Siria e poi l’lran, su su lungo le vie degli oleodotti e, in futuro, contro chiunque possa osare di far ombra agli Stati Uniti) – bisogna battere la strategia americana e dunque confrontarsi seriamente con gli Stati Uniti.

INGRAO – Intanto ha vinto Bush Junior. La partita cominciò nel `91. È vano ricordarlo: ma da allora a te e a qualcuno di noi fu chiaro che tipo di scontro si apriva. Non è una consolazione. Anzi: cresce l’amarezza.
E dobbiamo essere crudi e impietosi nella valutazione. Quella di Bush non è solo una vittoria secca e rapida sul campo: due settimane per abbattere il nemico. È l’insedia-mento diretto e armato della Superpotenza americana in un’area che tutti nel mondo riteniamo strategica: non solo perché là esiste un enorme giacimento di petrolio, di oro nero, ma perché è un paese-chiave per il controllo del Medio Oriente arabo, e una soglia per l’intervento in Asia. Non so dire come nell’immediato e nel futuro la Cina e tutta l’Asia reagiranno ai fatti di queste settimane. Ma tale è il livello dell’accaduto.
E poi c’è l’evento per così dire “ideologico” (anche se questa non è proprio la parola esatta). È la prima (o quasi) messa in prova della “guerra preventiva”, che a me pare una dilatazione clamorosa della funzione e dell’idea della guerra come fatto salvifico e il rilancio di una sua nuova funzione “sacrale”.

CASTELLINA – I movimenti per la pace sono stati molto attivi, certo assai più di quanto non siano stati in occasione della prima guerra del Golfo, della cui portata non si erano forse ancora del tutto resi conto. Oggi c’é, mi pare, e quasi in tutti, la consapevolezza che riflettere sul fatto che se i conflitti si chiudono senza che gli aggrediti abbiano opposto resistenza e in modo tale da moltiplicare l arroganza del vincitore, anziché ridurre il numero delle vittime, esse aumenteranno a dismisura in prospettiva, perché più spianata resta la via verso altre aggressioni. Tu con la dichiarazione che hai fatto sul «manifesto» proprio nei giorni più caldi del conflitto, quella in cui ti auguravi che il popolo iracheno resistesse all’ aggressione, hai messo il dito nella piaga e portato allo scoperto il vero tema che il movimento pacifista deve affrontare. Quello del dopo, per l ‘appunto. Anche se “repubblica” ti ha presentato, in un suo titolo vizioso e falsificante, come un amico di Saddam.

INGRAO – Ricordo. Mi sono incazzato, ma ho anche riso: non solo per il falso palese rispetto al mio testo, ma perché l’idea che io sia amico di Saddam è un po’ ridicola.
In verità in quelle dichiarazioni che feci, io ero più cauto e limitato.
E volevo invitare a due cose: innanzitutto, volevo compiere un atto di verità, e dire a me stesso e ad altri che gli americani ormai non si sarebbero fermati prima della conquista di Baghdad, e praticamente prima di avere militarmente nelle loro mani l’Iraq. Quindi, purtroppo, tutte le invocazioni a sospendere le operazioni erano generose nei sentimenti e circa il “dover essere”, ma del tutto astratte: non avrebbero fermato gli americani prima della conquista di Baghdad e della loro vittoria militare garantita. La guerra bisogna sempre guardarla in faccia. E riconoscere le cose col loro nome.
In secondo luogo volevo sottolineare il valore del “resistere” (questo verbo pieno di significato e anche denso di memoria storica): nel concreto dello scontro armato e della prova di forza. Amo la pace, e forse si sa. Ma dinanzi alla guerra in atto bisogna pur rispondere alla sua violenza: combattere, e anche sostenere l’aggredito che lotta con le armi in pugno.
Vedi: la via delle ispezioni non era stata inutile. Aveva dato dei primi risultati che potevano essere arricchiti e completati. E potevano incidere sulla vita dell’Iraq e sul
potere di Saddam. non a caso su quella strada si era formato all’ONU un vasto consenso, e anche un incontro tra le potenze europee nel fare ostacolo alla scelta di guerra degli americani.
Quel cammino è stato volutamente, velocemente strozzato. E gli eserciti anglo-americani si sono mossi persino prima delle decisioni formali.
Ed è stata – appunto – l’ aggressione: che cosa sono quelle bombe che squartano, quei quartieri inceneriti, quelle catene di morti, quelle cinture di carri armati che irrompono e s’appropriano delle città, le riducono a cenere e a pianto, e alla nera fame; e feriscono gli ospedali nella loro impossibile opera di soccorso?
Questo hanno fatto i `liberatori’ anglo-americani dell’Iraq. Questo comporta il decalogo della “guerra preventiva”, la dottrina Bush. Ai miei contemporanei piace questo cibo? E lo chiamano “liberazione”? S’accomodino. A me fa nausea.
E attenti: il massacro viene condotto, dichiaratamente, non per rispondere difendendosi da un attacco, ma per prevenire. Chi decide sulla terra se e dove si ferma questo sanguinoso potere di prevenzione?
E questo esito non era del tutto scontato. Nel ritorno clamoroso della guerra che è avvenuto alla fine del Novecento, e quando già l’impero sovietico era in pezzi, c’è stato un momento in cui è parso intervenire un dubbio, e addirittura una qualche correzione. Fu la fase in cui parve di moda quella che io chiamai la “guerra celeste”. Era l’idea e – sembrava – la pratica di una guerra che abbandonava (e in qualche modo salvava) il territorio abitato: 1’attacco armato soprattutto affidato al sapere tecnologico raffinato di flotte aeree, che dai puri cieli miravano solo a colpire obiettivi militari. I tempi del Kosovo, ti ricordi? Ma presto quella illusione morì. E alla fine il territorio fu ben altro che salvo.
Adesso quella “purificazione” della guerra è in cenere. Baghdad è stata squartata senza misericordia, e in tempi accelerati. E la morte, in molti casi, si è combinata alla miseria agghiacciante dei colpiti. So che alcuni fra i miei amici pacifisti si sono irritati anche per l’uso che ho fatto del vocabolo “calabrache”. A me sembrava che – per costume – a vecchi di età avanzata fosse consentita qualche parolaccia. Ma lasciamo perdere. Andiamo alle valutazioni di fondo.
Io ho pensato che a quel punto delle cose – e cioè con gli eserciti anglo-americani già all’attacco – era impensabile chiedere la fine della guerra: non ci saremmo riusciti, non l’avrebbero fatto! E non a caso non è accaduto.
Quindi quella parola d’ordine che in Italia era stata messa in campo dallo schieramento democratico – «fine dei bombardamenti» – aveva un doppio, serio difetto: era chiaramente irreale, e non coglieva, non indicava nemmeno le responsabilità. Soprattutto non dava il livello, la portata che raggiungeva l’urto: il livello là in Iraq e nell’orizzonte della vira mondiale. Perché questo è un punto chiave, dove non si può sbagliare, senza pagare prezzi pesanti L’attacco all’Iraq è la prima messa in pratica della strategia della guerra che anticipa, che previene – esposta solenne mente da Bush all’America nel primo autunno. Non sono stati lenti, gli strateghi americani. A settembre hanno annunciato al mondo il nuovo Verbo. A marzo gli hanno dato corpo. E quando l’ONU sbigottita ha mostrato de dubbi, non sono stati a perdere tempo: hanno piantato in asso l’ONU e sono passati ai fatti. Ricordi come allo Azzorre misero fretta anche all’alleato inglese ancora un po’ esitante e al satellite spagnolo. E bisogna riconoscere che i capi americani sono stati veritieri con il mondo, i quale adesso sa, e anche vede, se vuole vedere.
Diventa allora urgente e lancinante la questione di come si risponde alla nuova dottrina e agli scenari della politica mondiale che essa propone e che – bisogna riconoscerlo – non sono affatto ambigui.
Di certo la nuova strategia americana aggraverà il conflitto tra Occidente e universo musulmano (quanti miliardi sono i musulmani?). E prima o poi investirà direttamente o indirettamente l’Asia, ora così stranamente ma significativamente silente. Tale è il livello raggiunto dallo scontro.
Ne verranno conseguenze anche sui sistemi di regole. Non è stato stracciato solo l’Articolo 11 della Costituzione italiana. Su questa rivista, nel numero di aprile, Alberto Burgio ha raccontato puntualmente le nuove, agghiaccianti norme sulla detenzione messe in atto a Guantanamo e introdotte nelle regole di giustizia americana: ha parlato – documentando – di una «militarizzazione» della società.

CASTELLINA – Anche Bani Sadr (l’ex presidente della Repubblica islamica dell’lran, succeduto allo scià quando questi fu cacciato e poi però a sua volta eliminato dall’ avvento del khomeinismo) ha scritto in questi giorni – come del resto anche molti osservatori occidentali e una minoranza degli stessi americani – che vede in prospettiva la militarizzazione dello Stato e della politica estera e interna degli Stati Uniti. I dati sono in effetti agghiaccianti: non solo la guerra come strumento di politica internazionale, ma la crescente riduzione – per via della guerra, che viene definita guerra al terrorismo – degli spazi democratici, fino a poter ipotizzare che questa militarizzazione crescente, che investe anche la sfera economica, annunci una grande trasformazione del capitalismo, come quella che intervenne negli anni 20- 30. Insomma: il ritorno della centralità della guerra annuncia la fine della fase democratica del capitalismo, iniziata nel 1945? E se sì, si crea un legame strettissimo fra lotta per la democrazia e lotta per la pace, e viceversa. Ti sembra che il movimento pacifista sia attrezzato per affrontare questo collegamento o non è forse vero che, anche in Italia, esiste una qualche separazione fra chi pone di più l accento sulle violazioni della democrazia (vedi i “giro-tondi”) e chi di più sulla pace (vedi i pacifisti)? Certo c’è il rischio di diventare catastrofisti e perciò di contribuire alla smobilitazione.

INGRAO – Forse, personalmente, non ho inclinazioni per il catastrofismo. Se mai la lunga e “fangosa” vicenda politica italiana mi ha abituato al “compromesso” (anche Togliatti, ricordi?, ci educava a questo). E non ho nemmeno in testa una idea dell’America come “impero del male”. Trovo che l’America, l’America di oggi, sia un grande continente multiforme, dove agiscono culture, saperi, pratiche della vita non solo di straordinaria ricchezza tecnologica, ma di apertura umana, e di scandaglio di saperi e di passioni ricche.
Del resto come potrei pensare diversamente? Come potremmo? Ti ricordi quello che fu per noi giovani, alle soglie dei terribili anni quaranta (ma tu eri ancora adolescente, mi pare …), quella antologia, “Americana”, di Vittorini ? E che cosa dall’America ci è venuto non solo come liberazione dal fascismo ma come coraggio nell’affermare nuove frontiere umane. Sarei balordo se pensassi che queste radici, questi patrimoni sono defunti, o anche solo sbiaditi.
Ma è proprio ed anche questa coscienza di ciò che di ardito e di innovatore è scritto dentro la grande nazione americana – è questa lettura ed esperienza dell’America che rifiuta di identificare quella nazione con Bush, e chiede, consiglia critiche, scontro dialettico, interlocuzione franca e dura con la nazione americana. L’amicizia e il rispetto sono il contrario della acquiescenza all’errore.
Certo: vedo oggi trionfare in quel Paese una scelta cupa. Io vengo da una esperienza politica e da errori pesanti, che adesso mi fanno temere questi invasati da Dio, i quali fanno pulizia armata e insieme fanno ben fruttare i soldi. Non è per caso che la scettica Europa ha esitato, si è un po’ spaventata di fronte a questi nuovi missionari con la croce e la spada.

CASTELLINA – Per fortuna Antonio Gambino, che è un giornalista moderato e non un “estremista” come me, ha scritto proprio in questi giorni un libro dal titolo «Perché non possiamo non dirci antiamericani».
Questo mi libera e mi dà il coraggio di dire che a mio parere l’America, anche la migliore, ha sempre portato dentro di sé una pretesa di eccezionalismo,
Si è sempre considerata diversa e superiore al vecchio mondo, che i suoi pionieri avevano abbandonato, e ha vissuto con fede missionaria la convinzione che il proprio modello politico etico sociale coincidesse con l’universale. La nuova Gerusalemme. Se pensi che questo atteggiamento si accompagna da un lato al quasi monopolio del potere militare e dall’altro ad una sempre crescente chiusura provinciale dei suoi cittadini, che non leggono e non vedono che le immagini da loro prodotte e dunque ignorano “l’altro”, sì da facilmente confonderlo col male, ci si rende conto di quanto terribile e insieme patetica sia la figura del soldatino iper- armato in Iraq: ingenuamente meravigliato di fronte ad un mondo che non è come glielo avevano descritto ed è insieme, lui, acritica macchina di morte Cosa ha a che vedere questo con la cultura europea, cosa c’è mai in questo esser occidentali che dobbiamo tenere così da conto?
Una parte dell’ Europa ha comunque trovato la forza, questa volta, di dissentire: ha rifiutato la cosiddetta solidarietà atlantica per assumere una propria autonoma posizione.

INGRAO – Sì, in Europa è avvenuto uno scisma: il no di Francia e Germania non è cosa da nulla. Persino il no della Russia è stato per Bush un evento amaro. Ma, lasciamo da parte un momento L’Europa, il cortile di casa. Tu arrivi fresca da un viaggio in Sud America, da un incontro con Chàvez. Che dicono? Cile e Messico sono stati determinanti per bloccare la manovra tattica di Powell all’ONU.
E gli altri?

CASTELLINA – Proprio questa guerra ha dimostrato l’ enorme ruolo giocato dal processo di Porto Alegre (e lo chiamo processo perché non si tratta più solo di un incontro annuale ma di una molteplicità di Forum che si organizzano a tutti i livelli: locali, regionali, continentali). Ha aiutato a unificare il mondo, a far capire a tutti i problemi di ciascuno, spessa assai più sconosciuti (di quanto non si creda fra più di centomila quadri di movimenti reali, che ne mobilitano a milioni.
E così è stato possibile “socializzare” la questione palestinese, per molti versi rimasta confinata, oltre che, naturalmente, al mondo arabo, all’ Europa e agli Stati Uniti; e ora la guerra all’Iraq, che sarebbe altrimenti rimasta non solo geograficamente ma anche politicamente lontana dall’America del Sud. Come lontana per noi è rimasta a lungo, per esempio, la vera guerra che da anni si svolge in Colombia, oggi militarmente occupata dagli Stati Uniti, che stanno estendendo la presenza del loro esercito in tutta la regione amazzonica, e da un anno anche alla Bolivia. La giustificazione è qui il narcotraffico (che tutti sanno dovrebbe esser ben altrimenti perseguito), così come in Iraq sono state le armi di distruzione di massa.
In realtà si tratta di reprimere i movimenti contadini che in questo ultimo periodo hanno acquistato grande forza e cominciato ad avere un grande impatto anche a livello politico
L’elemento unificante, diciamolo pure, è la contestazione dell’ imperialismo americano che in America Latina ha giocato da sempre un ruolo nefasto, anzi drammatico, se si pensa all’ appoggio fornito a tutte le più sporche dittature del continente.
L’aggressione all’Iraq ha dunque immediatamente mobilitato la gente, che ha rapidamente tracciato un parallelo fra la propria condizione di sfruttati e quella dei popoli arabi. In particolare in Venezuela, da dove ora torno, il cui presidente, Hugo Chàvez, è stato denominato dagli americani “il Saddam dei tropici “: poiché sta cercando di cancellare l ‘accaparramen-to – da parte di una élite – della grande risorsa nazionale, il petrolio, per ridistribuirne il reddito fra la popolazione, è stato accusato nientemeno che di fornire aiuto alle FARC colombiane, costruendo una serie di provocazioni delle squadre paramilitari lungo la frontiera fra i due paesi. Insomma: la pace è qui più che mai legata strettamente alla liberazione dall’ oppressione dell’impero americano, e se ne capiscono bene le ragioni.
I rapporti e le reciproche conoscenze hanno influito molto anche sul nostro movimento europeo: hanno nutrito la lotta per la pace di una sostanza e una consapevolezza nuova e più generale, consentendo in questi ultimi due tre anni una eccezionale maturazione politica. Per questo non penso che, chiusa (per modo di dire) la pagina irachena, il movimento europeo si affloscerà. Non solo perché Bush non gliene darà il tempo, ma perché è ormai largamente condivisa la convinzione che la pace non è solo assenza di un conflitto ufficiale.

INGRAO – In questi giorni però in Centro America c’è stato un evento triste e grave: le fucilazioni e le condanne fulminanti compiute nella Cuba di Castro a danno di oppositori o di fuggiaschi, in processi-lampo, senza un minimo di garanzia di elementari diritti di difesa. Li ritengo eventi che fanno danno non solo a Cuba ma a tutto il movimento antimperialista del Centro America, e anche alla battaglia della sinistra in Italia. In un momento di rilancio difficile del movimento pacifista.
Sono andato al corteo pacifista di Roma del 12 aprile, con trepidazione: temevo molto che pesasse la vittoria indubbia e arrogante dell’aggressore americano. Ho incontrato e mi sono mischiato a un corteo grande, fiero, aperto alla difficile continuazione della lotta, e in cui – soprattutto – c’era la conferma della presenza in campo di una nuova generazione, quella che avevo incontrato e mi aveva commosso nel Forum di Firenze.
Giovani – giovani veramente: al tempo stesso curiosi e irrispettosi, candidi e discontinui: anche con un ritorno di anarchismo (lasciami usare questa parola) e insieme una gelosia di bandiera, di gruppo. E hanno sommerso e assediato i partiti della tradizione, irriso sottilmente alle loro barbe, ma anche con una curiosità di ascolto e persino di apprendimento: come volessero farsi anche raccontare che cosa era stato il tempestoso Novecento.
Quanti nomi e bandiere e varianti esistono in questa galassia rumorosa e trascinante? Non lo so. È evidente invece l’incontro che c’è stato tra questi “nuovissimi” e l’as-sociazionismo tradizionale che in Italia è forte, perché è cresciuto a fianco e in parte dentro ai due mondi politicoculturali, che – senza far torto a nessuno – hanno caratterizzato l’Italia del Novecento: il soggetto cattolico e il soggetto social-comunista, ambedue segnati da una forte (pesante!) disciplina, ma anche da una reale articolazione di esperienze: partiti sì, ma anche sindacati, e circoli culturali, e chiese e conventi di diversa ispirazione: camere d lavoro, case del popolo, parrocchie, ambientalisti, scoutismo di vario genere, e – perché no? – anche circoli di cinema e bands. Eccetera eccetera.
Questo mondo è stato invaso da una voglia di agir politico. Andava a votare, ma amava molto la piazza. S’ inebriava della ariosità del suo autonomismo e della sua feroce irriverenza verso i poteri. E qualche volta si è lasciato un po’ contaminare da una voglia di urto violento. M era anche segnato – in modo un po’ sorprendente – da un desiderio di pacifismo, da una profonda repulsione verso la guerra. Andava anche a portare con generosità e semplicità medicine e cibo, e soccorso, a entrare negli ospedali, a praticare i cosiddetti diritti umanitari, con una notevole indifferenza verso i Parlamenti. Ma su questo tornerò.
Tutto ciò, senza dubbio, ha cambiato fortemente l’agire politico in Italia. E prima di tutto ha generato e sorretto un nuovo pacifismo, è stato un primo attore contro la strategia americana della “guerra preventiva”.
Parlo dell’Italia che è il paese d’Europa in cui mi sembra che i nuovi “movimenti” siano stati più robusti.
E tuttavia questa onda nuova – pure così combattiva, attiva, e articolata – non è riuscita a impedire la guerra i Iraq e la grave vittoria di Bush.
Quindi oggi il movimento è chiamato dalle dure cose a una riflessione critica.
Secondo me questo “movimento dei movimenti” deve porsi il problema di come si incide e si determinano spostamenti nei luoghi deputati del Potere. E qui: stiamo attenti nell’uso che tutti facciamo della formula: impero americano. Torna di nuovo quel mio discorso sull’America. No è vero che l’America e Bush siano una cosa sola, compatta.
E – almeno sinora – non è vero che la Casa Bianca Wall Street abbiano già in mano le redini del globo. Neppure adesso che il video e la macchina dell’informazione – per larga parte segnati dalla dottrina di Bush – sono arrivati a penetrare in ogni pertugio.
La politica – il controllo politico dell’accadere – ancora oggi è un sistema articolato di scelte, di momenti decisionali, di interventi nella produzione, nella organizzazione della vita, e dei consumi e costumi, e del generare e dell’educare. II modo con cui questa trama di poteri agisce su l’umano è ancora in discussione. La dottrina Bush, e i suoi dei e i suoi stilemi, sono ancora parte: una parte armata violenta, ma tuttora controversa.
Per battere o almeno condizionare questo Bush e i signori della “guerra preventiva” bisogna agire, pesare se codesta trama articolata di poteri che, variamente, e ancora con forti differenze nazionali e continentali, pervadono pianeta.
Invece, in questa trama di poteri il popolo della pace adesso, per brevità, forzo le cose – non è riuscito a penetrare.
Anzi: non ci ha nemmeno provato veramente.
Eppure in questo reticolo di momenti decisionali sono sorte palesi difficoltà per i capi americani: l’avallo dell’Onu alla guerra – di quell’Onu pure così segnata dagli anni e dalle sconfitte – non l’hanno avuto. La Nato per varie ragioni, è stata inservibile. E soprattutto una parte storica dell’Europa politica si è dissociata: in paesi simbolo come la Francia e la Germania.
Abbiamo noi fatto tutto il possibile per allargare e rendere attivo questo dissenso europeo? Abbiamo in Italia chiamato in campo – e fino a che punto – la rete delle assemblee politiche, regionali, comunali e provinciali? Le abbiamo sollecitate e sospinte a intervenire sul Parlamento?
E anche in queste due Camere italiane si è riusciti a suscitare quella tensione di dibattito e di decisione che fosse pari alla tragica messa in atto dalla “guerra preventiva” americana? La Rai – televisione di Stato – a me è apparsa gravemente faziosa a favore dell’invasione americana. E soprattutto non ha detto nulla – salvo qualche breve battuta, qualche briciolo di frase – sul pensiero e sulle iniziative del movimento pacifista. Eppure la Rai è tuttora un potere di Stato, un potere pubblico. Che abbiamo fatto su questo vero e proprio crocevia della comunicazione moderna? Forse nemmeno un “girotondo” attorno a quella sede di Piazza Mazzini.
Parlo dell’Italia. Ma credo che manchi, o sia debole, anche solo una riflessione pubblica – anche nei movimenti e tra i movimenti – su quello che c’era e c’è da fare in sede di Parlamento europeo. Per esempio che cosa esso dice – ora e a nome del Continente – sugli sviluppi in quella zona cruciale del Medio Oriente, dove dagli americani già è stata avanzata platealmente una minaccia-intimazione alla Siria? E qui il pensiero corre naturalmente allo sterminato mondo musulmano. Confesso subito una mia ignoranza, ma credo che su ciò ci sia un ritardo generale nel senso comune, nel sapere diffuso. Nei suoi modi l’ “ingenuo terzomondismo” del secondo Novecento era meglio. Bisognerebbe sviluppare un’opera al tempo stesso di conoscenza e di acculturazione. Noi abbiamo – anche come rivista – competenze forti in materia: ma forse più come analisi sociale che conoscenza del costume, delle correnti e varianti culturali, e della stessa articolazione ideologica del mondo musulmano, dove operano anche profonde differenze.
Io vorrei auspicare un lavoro di lunga lena, e anche una battaglia forte contro la “sufficienza” e arroganza occidentale, che è diventata – nel suo movimento intimo – anche più grande, nonostante il dilagare del turismo e la conclamata globalizzazione. Mi pare che stia calando anche uno strano silenzio sulla Palestina, quasi cancellata dalla “guerra preventiva” irachena. Qui l’amarezza diventa grande.
Infine un cenno al dibattito cruciale sui “soggetti”.
Sul «Manifesto» di giovedì 17 aprile è apparso un interessante articolo di Luisa Muraro, che – muovendo da un’intervista di Ida Dominjanni a Mario Tronti , pubblicata sullo stesso quotidiano – imputa al movimento pacifista di restare “serrato” nel terreno e nelle logiche dei “rapporti di forza”. La Muraro invita a «strapparsi a quel terreno, allargare l’orizzonte, non farsi trovare lì». E – citando Cristina Campo – chiama a uscire dal «sistema dei rapporti di forza» e a «cercare salvezza» in un altro ordine di rapporti. E tra «le forze in campo» evoca quella dell’amore. Il mondo delle donne ha reso «riconoscibile una politica delle relazioni praticata di preferenza dalle donne, che si esercita fuori dal terreno del potere e del dominio».
E qui dunque tutti i miei ragionamenti a intervenire sui luoghi del potere vengono scavalcati. È un altro orizzonte. Io posso solo annotare la diversità (e forse il limite) della mia esperienza di maschio, e la straordinarietà sconvolgente delle domande che la “guerra preventiva” sta evocando. Vengono investite letture del mondo, rispetto a cui la prosopopea civettuola del Berlusconi apparirebbe davvero un po’ comica, se non avesse a che fare con le armi terribili di questo terzo Millennio, e non muovesse esseri umani verso campi di guerra.
CASTELLINA – Un modo efficace di incidere oggi a livello istituzionale per i movimenti sarebbe quello di chiedere la convocazione dell’Assemblea generale dell’ONU. Spesso le rivendicazioni relative alle Nazioni Unite da parte del movimento sono state generose ma molto utopistiche. Oggi invece ci sono le condizioni per una proposta politica reale ed efficace, consentita dalla Risoluzione 377 dell’ONU, che definisce le regole in base alle quali è, per l’appunto, possibile chiedere la convocazione dell’Assemblea generale per superare in quella sede lo stallo prodotto dal Consiglio di sicurezza. Gli Stati Uniti stessi usarono tale possibilità all’epoca della guerra di Corea per aggirare il veto sovietico. Oggi l:4ssemblea generale, nonostante i ricatti che i suoi membri più poveri subiscono è un’altra cosa. Dovremmo, credo, organizzare una campagna a questo fine, per riproporre il problema della Palestina, del dopo Iraq. E così via.
Non è molto, ma è un obiettivo concreto di cui il movimento della pace ha bisogno in una fase in cui rischia di restare frustrato e disperso. Non dovrebbe fermarsi, anche se occorre attrezzarsi per un più lungo e difficile cammino, perché io sono d’accordo con coloro che scorgono dietro l ‘arrogante ferocia della macchina militare americana i primi segni di una fragilità politica economica e culturale. Nessun impero ha saputo tenere il mondo in pugno con le sole armi. Mai. E nemmeno l’aggiunta della Coca Cola potrà salvarlo.
Non abbiamo comunque ragionato sulle conseguenze che l’ innovazione e la pratica della “guerra preventiva” avrà sullo sviluppo e sulle forme di questo capitalismo globale.

INGRAO – I marxisti di questa rivista ce lo rimprovereranno. AI diavolo i marxisti pedanti! Se la sbrighino loro.

NOTE:

1) Alberto Burgio, Attacco allo Stato di diritto, «La rivista del manifesto», n. 38, aprile 2003, p. 38;
2) Antonio Gambino, Perché non possiamo non dirci antiamericani, Editori Riuniti, Roma 2003.
3) Cfr. Intervista di Ida Dominjanni a Mario Tronti, Che fare dell’Occidente?, «il manifesto», 11 aprile 2003, e Luisa Muraro, Per forza o per amore?, «il manifesto», 17 aprile 2003.