Nel `91 i raid Allora la guerra fu soprattutto aerea: in 43 giorni l’aviazione Usa e alleata, con 2.800 jet e 110.000 sortite, sganciò 250.000 bombe
Su Mosul e Kirkuk Verso l’attacco terrestre da sud, e dalla Turchia, da nord. Obiettivo: i campi petroliferi del nord-Iraq e impedire secessioni dei kurdi
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«Bush annuncia che il tempo di Saddam è scaduto, ma non dà mai una scadenza precisa», così titolava il Washington Post in questi giorni. E’ l’effetto «stop and go» che continuerà ancora per giorni e settimane, appena oltre la metà di febbraio, che potremmo riassumere così: la guerra angloamericana si ferma, le truppe avanzano. Sì, avanzano. La Ironhorse, una task force di 37mila uomini, ha ricevuto ieri dal Pentagono l’ordine di partire per il Golfo persico. Alla sua testa c’è la 4a Divisione di fanteria, «la più letale, moderna e dispiegabile divisione pesante dell’esercito Usa» (come si autodefinisce), composta di oltre 12mila uomini e dotata dei più potenti carri armati esistenti, gli Abrams M1A2. Con i nuovi arrivi, gli effettivi Usa nel Golfo saliranno a circa 250mila. Contemporaneamente, Londra ha ordinato la partenza di altri 26mila soldati che, aggiungendosi a quelli già nell’area, porteranno il totale britannico a circa 40mila uomini, un livello analogo a quello della prima guerra del Golfo. Queste forze terrestri hanno il compito di attaccare l’Iraq da sud, mentre altre, schierate in Turchia, lo dovranno attaccare da nord. Esse saranno composte da 15mila uomini (il Pentagono ne voleva inviare 80mila, ma Ankara non ha accettato), che avranno il compito di «impadronirsi dei campi petroliferi attorno alle città irachene di Mosul e Kirkuk» (The New York Times, 21 gennaio) e «assicurare che i kurdi iracheni non tentino una secessione dall’Iraq», cosa che la Turchia non è disposta ad accettare. Tali preparativi confermano che lo scopo strategico perseguito oggi dagli Stati uniti (e dal fido scudiero britannico) è quello dell’occupazione dell’Iraq, a cominciare dalle zone petrolifere. Allora, cosa aspetta Bush a dare il «go»? Quali nuovi problemi e «impreparazioni» si trovano davanti gli Stati uniti? Quali le differenze con la prima guerra del Golfo? E perché, ci si può chiedere, non occuparono l’Iraq nel 1991, anche se lo avrebbero potuto fare? Le ragioni sono molteplici. Al momento della prima guerra del Golfo esisteva ancora l’Unione sovietica: occupando l’Iraq, gli Usa avrebbero mostrato il loro vero scopo strategico, provocando un irrigidimento dell’Urss che avrebbe potuto riportare al potere la «linea dura» contraria al dissolvimento dell’Unione. L’occupazione avrebbe potuto inoltre allora provocare la disgregazione dell’Iraq, accrescendo il peso dell’Iran di Khomeini e suscitando la reazione della Turchia, contraria alla formazione di uno stato curdo ai suoi confini.
Oggi invece a Washington ritengono che le condizioni siano molto più favorevoli: non esiste più l’Urss e né la Russia né altri paesi, anche se lo volessero, sarebbero in grado di dissuadere gli Stati uniti dal portare a compimento il loro piano strategico. Allo stesso tempo, la posta in gioco – il petrolio iracheno – è oggi ancora più importante per gli Stati uniti di quanto lo fosse nel 1991: mentre le loro riserve petrolifere sono calate da allora del 20% e a questo ritmo di sfruttamento dureranno solo 11 anni, si è nel frattempo scoperto che quelle irachene sono molto maggiori di quanto stimato nel 1991 e che dureranno oltre un secolo. Recenti prospezioni hanno dimostrato che non è l’Arabia saudita ma l’Iraq il paese con le maggiori riserve petrolifere mondiali: occupandolo e controllando le sue riserve, gli Usa possono quindi avere in mano una formidabile arma economica e politica. Si tratta di far presto: dal dicembre 2000, il prezzo del greggio statunitense è salito del 44%, superando i 34 dollari al barile, e la dipendenza Usa dalle importazioni petrolifere, già oggi di circa il 60%, continua ad aumentare. La posta in gioco vale dunque il rischio.
Ma l’occupazione dell’Iraq è rischiosa. Lo sanno bene a Washington. All’interno del mondo arabo, vi è oggi maggiore ostilità verso lo strapotere statunitense e l’occupazione dell’Iraq sicuramente la accrescerebbe. L’uccisione, ieri, di un «funzionario» del Pentagono e il ferimento grave di un altro nei pressi della base di Doha, vicino a Kuwait City, dimostra che, anche nelle zone più strettamente sotto controllo, gli americani possono sempre essere colpiti. L’occupazione dell’Iraq esporrebbe poi le forze americane a rischi molto maggiori di quelli del 1991. Allora la guerra fu soprattutto aerea: in 43 giorni, l’aviazione statunitense e alleata effettuò, con 2.800 aerei, oltre 110.000 sortite, sganciando 250.000 bombe. L’offensiva terrestre, non avendo per obiettivo l’occupazione dell’Iraq, «si limitò», nelle ultime 100 ore, al massacro di soldati e civili iracheni in ritirata. Le perdite statunitense e alleate furono quindi minime. Oggi invece, dopo l’offensiva aerea, si tratta di occupare il territorio, comprese le città dove probabilmente si trincereranno le forze scelte irachene, e si dovrà poi mantenerne il controllo.
Ci sono poi altri problemi per Washington. Gli Stati uniti non appaiono oggi in grado di radunare una coalizione analoga a quella del 1991, che fornì un non trascurabile 30% della forza complessiva di 750mila uomini e, con la sua stessa presenza, servì a far apparire la guerra come una operazione della «comunità internazionale» a difesa del «diritto internazionale». Probabilmente a Washington oggi non vogliono neppure una coalizione di questo tipo (e nemmeno l’intervento della Nato in quanto tale), poiché vogliono essere i soli (con lo scudiero britannico) a occupare l’Iraq e controllare le sue riserve petrolifere. L’amministrazione Bush rischia così molto di più: una fila di bare di ritorno dall’Iraq risusciterebbe negli Stati uniti l’incubo del Vietnam, e rafforzerebbe il movimento contro la guerra, ritorcendosi politicamente contro l’amministrazione Bush.
Un altro problema per l’amministrazione Bush è che, mentre nella prima guerra del Golfo gli alleati, soprattutto gli arabi, si addossarono oltre il 78% della spesa (48 su 61 miliardi di dollari), nella seconda guerra del Golfo, il cui costo viene stimato in 200 miliardi di dollari, Washington non potrebbe contare su un analogo contributo. Un problema non da poco per un bilancio federale salassato dalla spesa militare – 372,5 miliardi di dollari nel 2003 che, con altre voci di carattere militare, salgono a 495, circa un quarto del bilancio federale – il quale subirà nell’anno fiscale 2003 (iniziato il 1 ottobre 2002) un deficit di 200 miliardi di dollari e, nel prossimo, di 300 miliardi.
A questi problemi se ne aggiunge ancora un altro. A differenza del 1990, oggi l’Iraq non ha compiuto alcuna aggressione (come fu con il Kuwait) e le ricerche sulle sue presunte armi di distruzione di massa sono state finora infruttuose. E, fatto ancora più imbarazzante per Washington, gli ispettori dell’Onu hanno raggiunto un accordo con Baghdad, riconoscendo ufficialmente, in una dichiarazione scritta, di aver «ottenuto accesso a tutti i siti» e di aver ricevuto «una utile assistenza» da parte irachena. E’ quindi più difficile per Washington creare una motivazione «legale» per la guerra e, su questa base, ottenere un imprimatur internazionale analogo a quello del 1991. Washington non lascia però niente di intentato. Da mesi conduce una offensiva «diplomatica» in cui usa i più svariati strumenti di pressione sui governi titubanti: dai ricatti (soprattutto verso i paesi indebitati con il Fmi e dipendenti dal «sostegno» economico Usa), alle promesse sottobanco (come quella di garantire gli interessi russi nell’industria petrolifera irachena).
Altre promesse sottobanco vengono sicuramente fatte agli alleati europei, per convincerli che, aiutando gli Usa, avranno il loro tornaconto. Washington ha chiesto alla Nato di schierare le proprie navi nel Mediterraneo orientale, per proteggere le unità navali statunitensi mentre bombardano l’Iraq con i loro aerei e missili, proteggendo allo stesso tempo le basi Usa in Europa – chiede per questo migliaia di soldati alla Germania – e possibilmente quelle nel Golfo persico. E spazi aerei aperti, che l’Italia ha subito concesso. Insomma, un ruolo adatto a quell’Europa che vuole la guerra, ma senza sporcarsi le mani. Gli alleati, se gli Usa acconsentono, potrebbero comunque partecipare alla guerra inviando, come Londra, unità di combattimento nel teatro bellico. I governi dell’Europa centro-orientale, appena entrati nella Nato, non aspettano altro per guadagnarsi i galloni sul campo. E, in caso di necessità, potrebbe intervenire «legalmente» anche la Nato, poiché, a differenza che nella prima guerra del Golfo, oggi può operare fuori della propria area (come ha stabilito il vertice di Washington dell’aprile 1999). Una Nato dal doppio uso: serve concretamente dal lato della Turchia, è decisiva politicamente a sorpassare e azzerare la ritrosia dei governi e l’eventuale contrarietà alla guerra dei parlamenti europei.
E pur di arrivare con il minimo rischio a mettere le mani sul petrolio iracheno, si arriva perfino a promettere all’odiato nemico numero uno una sorta di impunità se se ne andrà senza opporre resistenza. «Sarei felicissimo se Saddam Hussein gettasse la spugna», ha dichiarato il segretario alla difesa Usa Donald Rumsfeld, aggiungendo che in tal caso egli potrebbe trovare rifugio in qualche paese. Un assenso che sembra fatto apposta per far fallire l’iniziativa araba in tal senso e, inoltre, appare improbabile che Saddam Hussein accetti, fidandosi della parola di Rumsfeld. Naturalmente per gli Stati uniti, anche senza Saddam – qui si capisce la falsità della questione «disarmo» – il problema di occupare l’Iraq non solo resterebbe, ma diventerebbe ancora più pressante.
Infastidito da tutti questi problemi – troppi per lui – il presidente Bush si è rifugiato nella fede, annunciando l’istituzione della «Giornata Nazionale della Santità della Vita Umana». Condannando l’aborto, egli ha dichiarato che «ogni bambino è una priorità e una benedizione e io credo che tutti debbano essere accolti nella vita e protetti dalla legge: attraverso politiche etiche e la compassione degli americani, continueremo a costruire una cultura che rispetta la vita». Rispetta la vita, ha detto così. Lo ascoltano dal cielo gli oltre 500mila bambini iracheni morti per l’embargo imposto dagli Usa e i tanti mai venuti alla vita per i bombardamenti all’uranio impoverito.