La guerra sarà lunga

E allora come speriamo che sia questa guerra, lunga o breve?»: ponendo tale quesito, Barenghi ha suscitato una discussione che mette utilmente a confronto le diverse concezioni che concorrono al movimento contro la guerra. Indipendentemente da ciò che ognuno spera, una cosa è certa: la guerra è e sarà lunga. Essa inizia nel 1991 quando, approfittando dell’imminente dissoluzione del Patto di Varsavia e della stessa Unione sovietica, gli Stati uniti spostano il centro focale della loro strategia nella regione del Golfo. E’ Saddam Hussein, fino a poco tempo prima da loro sostenuto nella guerra contro l’Iran, a fornire agli Usa su un piatto d’argento l’occasione di fare una guerra il cui fine reale non è il ristabilimento del diritto internazionale violato, ma il rafforzamento della presenza militare statunitense nell’area strategica dove sono i due terzi delle riserve petrolifere mondiali. A pagare è il popolo iracheno, sia durante che soprattutto dopo la guerra, quando essa prosegue con l’embargo e i bombardamenti, provocando oltre un milione di vittime. Il secondo passo è la guerra contro la Jugoslavia, che nel 1999 permette agli Stati uniti di rafforzare la loro presenza e influenza nella regione europea nel momento critico in cui, dissoltosi il blocco orientale, se ne ridisegnano gli assetti: una guerra che avrebbe potuto essere evitata (come quella in Bosnia) con una soluzione politica, se l’Europa si fosse mossa in tal senso e non invece in ordine sparso con le maggiori potenze impegnate ciascuna a portare acqua al proprio mulino. E’ nel corso di questa guerra che la Nato, spinta da Washington, si arroga il diritto di intervenire fuori area e comincia a estendersi ad est, inglobando i primi tre paesi dell’ex Patto di Varsavia, cui se ne aggiungeranno altri sette portando l’Alleanza atlantica fin dentro il territorio dell’ex Unione sovietica. E’ a questo punto che, sull’onda dell’attacco terroristico dell’11 settembre 2001 (sulla cui versione ufficiale vi sono fondati dubbi) si verifica una accelerazione nella strategia di guerra. Con la motivazione della caccia a Osama bin Laden, già alleato della Cia contro i sovietici in Afghanistan, gli Stati uniti occupano il vuoto lasciato dal crollo dell’Unione sovietica in Asia centrale, area di enorme importanza sia per le riserve energetiche del Caspio e quelle limitrofe del Golfo, e i relativi corridoi petroliferi, sia per la posizione geostrategica rispetto a Russia, Cina e India. Immediatamente dopo, in base a un piano già ideato nel 1998 dal gruppo di «falchi» che poi forma il nocciolo duro della amministrazione di George W. Bush, viene iniziata la preparazione della seconda guerra all’Iraq, con l’obiettivo di occuparlo così da controllare il suo petrolio e insediarsi militarmente sul suo territorio, in una posizione geostrategica chiave nella regione mediorientale. L’obiettivo è ritenuto ora fattibile, essendo i rapporti di forza ancora più favorevoli agli Stati uniti.L’operazione si rivela, però, più difficile di quella effettuata nel 1990-91. A differenza di allora, l’Iraq di Saddam Hussein non compie alcuna aggressione e si attiene alla Risoluzione 1441 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite (8 novembre 2002), permettendo agli ispettori Onu di entrare in tutti i siti. Diviene di conseguenza impossibile per gli Stati uniti creare la motivazione «legale» all’invasione. Nonostante ciò, il carro da guerra guidato dai «falchi» viene lanciato all’attacco, provocando quella che un editoriale del New York Times (18 marzo), esprimendo i dubbi di una parte dell’establishment, definisce una «guerra sulle rovine della diplomazia, una guerra senza obbligo di necessità, senza l’approvazione delle Nazioni unite, né la compagnia dei tradizionali alleati». Su questo sfondo, come opporsi alla guerra? Anzitutto avendo chiaro che uno stesso filo nero collega le quattro guerre del dopo guerra fredda: la strategia attraverso cui gli Stati uniti, rimasti l’unica superpotenza su scala mondiale, cercano di consolidare tale posizione impedendo con tutti i mezzi, anzitutto con la soverchiante forza militare, chiunque metta in discussione la loro egemonia.
In tale situazione sempre più critica, che sta provocando una reazione a catena di conflitti armati, una strategia di resistenza alla guerra dovrebbe basarsi sui seguenti punti: 1) Sostenere i paesi aggrediti e invasi, indipendentemente dal loro sistema di governo, con la consapevolezza che, più presto cedono i popoli aggrediti, più presto ne saranno aggrediti altri e quindi altre stragi avverranno: già sono nel mirino Iran, Siria e altri paesi. 2) Rivendicare il diritto di ogni popolo a decidere il proprio sistema di governo, rifiutando che siano le «democrazie occidentali» a decidere col loro metro chi sia o non sia democratico, e avendo fiducia nella capacità di ogni popolo di liberarsi dai sistemi oppressivi. 3) Isolare i governi della guerra, facendo sì che paghino il più alto prezzo politico, rispondendo per le loro azioni alla Corte penale internazionale per i crimini di guerra. 4) Difendere le Nazioni unite così come sono oggi, continuando a operare per una loro riforma realmente democratica, e non suonare la campana a morto per la «vecchia Onu» proprio nel momento in cui, negando l’imprimatur alla guerra, la rende illegale. 5) Costruire il più largo fronte mondiale contro la guerra, che comprenda non solo i movimenti per la pace, ma tutti i soggetti politici e governativi che vi si oppongono, anche quando la loro opposizione (come nel caso di Francia e Germania) è dettata da motivi di interesse. La guerra è lunga e la resistenza per sconfiggerla deve essere di lunga durata.