La guerra santa(e il gran barile)

Una riunione tra dipartimento di stato Usa e un gruppo di fuoriusciti dall’Iraq tenta una prima definizione dell’assetto futuro del petrolio, quando il paese sarà nelle mani dei vincitori. Probabile l’intervento delle compagnie straniere, ma solo dei paesi meritevoli. Il Pentagono per ora fa capire che il petrolio fa parte del bottino

Si sono tenuti sabato importanti colloqui tra esponenti iracheni in esilio e funzionari del dipartimento di stato degli Usa. L’argomento era il petrolio; e l’agenzia Reuters che ne è venuta a conoscenza ne ha fatto oggetto di alcuni lanci, passati peraltro inosservati. E’stata una fortuna che sia andata così, perché, se lo avesse saputo per tempo Con-dolcezza Rice – consigliere per la sicurezza nazionale del presidente George W. Bush – avrebbe come minimo mandato i B52 per rimettere le cose a posto. Così, per mettersi al riparo dagli sguardi ostili, gli assistenti di Colin Powell, guidati da Thomas A. Warrick, consigliere per il medioriente, si sono incontrati con gli esuli iracheni (tra gli altri Fadhil al-Chalabi, un tempo vice ministro del petrolio a Baghdad) in una località decentrata: Londra. Quella Londra che essendo assai frequentata da operatori economici e finanziari di ogni tipo, consente una certa libertà di incontri discreti. E’ comunque significativo che un colloquio su un argomento tabù come il petrolio iracheno, si sia svolto fuori sede, lontano dagli Usa e dal Medio oriente. L’esito dei colloqui chiarisce bene quale può essere (quale sarà) l’agenda della discussione vera con gli interlocutori appropriati, una volta che l’Iraq avrà cambiato stato e il nuovo potere affiderà gli incarichi per il petrolio. Si pensa (tra le colombe del dipartimento di stato) a un’autorità petrolifera a interim fatta da iracheni, sotto controllo Usa; capace di garantire o di promettere un ambiente molto amichevole per gli investitori esteri, con sufficienti libertà di azione, nonché di entrata e uscita per i capitali, in modo da attrarre le compagnie internazionali attive nel ramo petroli. Di esse si sente il bisogno, sia per le conoscenze tecniche sia per i miliardi di dollari in ricerca e gestione industriale che possono mobilitare, attingendo al sistema bancario globale. Le cifre ripetute in quest’occasione sono simili a quelle – miliardo più, miliardo meno – che circolano da anni. Servono 5 miliardi di dollari per riportare la produzione alla capacità anteguerra (ante invasione del Kuwait) cioè a 3,5 milioni di barili al giorno (un barile equivale a 159 litri). Per ottenere tale risultato occorre rimettere in sesto i giacimenti, spesso sfruttati assai male, anche per mancanza di pezzi di ricambio; e poi rabberciare le condotte, sistemare le stazioni di pompaggio, le raffinerie e i terminali, ricucire gli oleodotti.

Ma dipartimento di stato e diaspora irachena sembrano guardare più in là. Per spremere davvero il petrolio iracheno serviranno altri 30-50 miliardi di dollari, per arrivare nel giro di 8-9 anni a una produzione cresciuta di 4 o 4,5 milioni di barili al giorno. Con otto milioni di barili al giorno, sia pure nel 2010, l’Iraq restaurato diventerebbe uno dei quattro maggiori produttori di greggio, nello stesso ordine di grandezza di Arabia Saudita, Usa e Russia. E’l’Opec?

Nel piano immaginario disegnato a Londra, l’Opec rimarrebbe la casa di riferimento anche per il petrolio iracheno, restituito alla democrazia; i commentatori ascoltati dalla Reuters non si nascondono però i timori degli undici paesi esportatori dell’organizzazione di dover far posto alla crescente (e come!) produzione irachena, riducendo le proprie quote; oppure di dover subire una riduzione del prezzo, aumentando in modo eccessivo – con i milioni di barili iracheni – l’offerta di petrolio del cartello. Particolare il risentimento dell’Arabia saudita che perderebbe in pratica il ruolo di arbitro nell’offerta di petrolio: quanto venderne e a quale prezzo.

Un aspetto decisivo è l’apertura alle compagnie petrolifere, sia pure da parte di chi non dispone effettivamente delle spoglie di guerra. Se si realizzassero le condizioni di massimo favore dei tempi precedenti alla nazionalizzazione, avvenuta nei primi anni ’70, tornereste a investire e a estrarre petrolio in Iraq? E ancora: siete interessati ai contratti di divisione della produzione (Psa, Production-sharing agreements)? Il dipartimento di stato insieme ai suoi protetti si risponde affermativamente: le grandi compagnie, tanto Usa, come Exxon-Mobil o ChevronTexaco o ConocoPhillips, quanto l’anglo olandese Shell, o la francese TotalFinaElf , o la russa Lukoil, o la compagnia di stato cinese (Cncp) saranno molto liete di parecipare.

La proposta è la spartizione produttiva, ma è anche espressa la convinzione che sia utile privatizzare almeno in parte il petrolio iracheno, che al contrario di quello saudita o messicano, è ancora statizzato. E suggerisce così di puntare di più sulla ripresa rapida del petrolio iracheno e dell’economia mondiale che di petrolio a prezzi stracciati ha un gran bisogno che non sul premio ai vincitori. E’ assai plausibile che si faranno delle distinzioni: tutte le compagnie citate oltre alla Bp inglese avrebbero interesse a migliorare il proprio assetto upstream (ricerca, disponibilità di greggio, produzione) e soprattutto con un petrolio la cui estrazione costa uno o due dollari al barile contro i sei o gli otto, comuni nell’industria. Ma è altrettanto certo che il Pentagono e la Casa bianca si affretteranno a dividere i buoni (i guerrieri) dai cattivi (i pacifisti, anzi i panciafichisti come diceva il duce). Cinesi, russi, francesi hanno osteggiato la guerra, hanno osato minacciare il veto all’Onu. Il petrolio, bottino di guerra, non fa per loro, non sarà condiviso, almeno in una prima fase con le loro imprese. Tanto più che mentre americani e inglesi tenevano alta la bandiera dell’embargo, francesi, russi e cinesi cercavano di fare contratti con l’Iraq relativi ai giacimenti più giganteschi. Al loro seguito italiani e coreani, malesi e vietnamiti, spagnoli e indiani, facevano lo stesso. Inglesi e americani rimanevano in disparte, un po’ perché non volevano un petrolio antidemocratico, un po’ perché il regime di Baghdad non voleva trattare con loro.

Siccome molti uomini d’onore ci hanno ripetuto che la guerra dell’Alleanza contro l’Iraq non è dovuta al petrolio, noi metteremo da parti i nostri pregiudizi materialisti; al contrario delle tre guerra precedenti: Iraq contro Iran (1980-1988); Iraq contro Kuwait (1990); Nazioni unite contro Iraq (1990-91), questa guerra con il petrolio non c’entra. Il petrolio è però importante, visto che per i tre paesi produttori, indicati prima (Arabia saudita, Usa, Russia) è un elemento sostanziale del modello economico, nel primo e nel terzo caso e qualcosa che attiene alla vita stessa nel secondo. Infatti se per la Russia petrolio e gas sono quattro quinti delle esportazioni, se per l’Arabia suadita il petrolio vale l’intero bilancio, per gli Usa conta ancora di più, equivalendo alla libertà stessa: quella di andare e venire con un’automobile che ancora per vent’anni, Jeremy Riskin permettendo, andrà sempre e comunque a petrolio. L’annessione o quel che sarà dell’Iraq, permetterà di gestire a favore dei vincitori il petrolio e il suo prezzo, in barba all’Opec. Anzi, se l’Iraq rimarrà nell’Opec, gli Usa e il Regno unito governeranno anche questo; se l’Iraq ne starà fuori, l’Opec avrà a che fare oltre che con la Russia, con un altro nemico. Comunque il petrolio poco caro non basterà a rilanciare l’economia; e Bush perderà, come suo padre, le elezioni dell’anno prossimo.